Secondo il rapporto Slow Food di marzo 2020 dedicato ai sostituti della carne, nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando dai 50 milioni di tonnellate del 1961 agli oltre 300 milioni di tonnellate attuali. Un aumento dovuto all’incremento demografico mondiale (nello stesso periodo gli abitanti del pianeta sono cresciuti da 3 a 7,6 miliardi) ma anche all’aumento del benessere di parte della popolazione. Nei Paesi più ricchi (Stati Uniti, Australia, Europa), ma anche in Argentina, Brasile o Messico il consumo di carne supera gli 80 kg pro-capite medi all’anno, sebbene 26 kg l’anno sia il fabbisogno proteico medio sufficiente ad un adulto sano, che potrebbe essere soddisfatto, senza problemi anche solo da fonti proteiche vegetali.
Consumi in crescita continua
I consumi sono elevatissimi ma stabili nei paesi occidentali. I paesi in rapida crescita (Cina, India, Sud-est asiatico) invece vivono uno sviluppo impetuoso dei consumi di carne, a causa dell’occidentalizzazione degli stili di vita e dell’uscita dalla povertà di ampi settori della società. L’impennata globale della domanda di carne degli ultimi anni ha visto, nello stesso periodo, una corrispondente crescita della sua produzione secondo ritmi e pratiche di tipo industriale. Questo modello produttivo ha consentito di mettere sul mercato grandi quantità di carne a prezzi bassi, sfruttando la riduzione dei costi dei mangimi animali, la minore necessità di manodopera, i tempi di accrescimento rapidi delle nuove razze ad alto rendimento, senza tenere in alcun conto il benessere animale e provocando, con le terribili condizioni di sovraffollamento proprie degli allevamenti intensivi, il noto problema dell’antibiotico-resistenza sia in ambito veterinario che in medicina clinica .
È aumentata anche la concentrazione del potere nelle mani di poche grandi aziende: poche multinazionali oggi controllano l’intera filiera, dalla genetica animale alla produzione di mangimi, dai prodotti farmaceutici all’allevamento, dalla macellazione alla distribuzione. Si riduce progressivamente il numero degli allevatori, ma aumenta il numero di capi allevati per azienda. Negli Stati Uniti il numero degli allevatori di suini si è ridotto del 70% dal 1992 al 2009, ma i capi allevati nel paese sono gli stessi. Sempre in questo paese oggi è possibile trovare allevamenti da 100 mila bovini (pari all’intera popolazione di vacche da latte della Grecia!) e nel mondo sono sempre più frequenti gli allevamenti da oltre 500 mila polli o da 10 mila suini.
La produzione industriale di carne sta esercitando pressioni fortissime sulle risorse ambientali. Il settore agricolo produce il 24% delle emissioni climalteranti globali e quello zootecnico il 14,5%. La sempre più diffusa consapevolezza ecologista rende l’opinione pubblica più sensibile a tematiche come il benessere animale, che chiaramente viene meno negli allevamenti intensivi, o ai rischi legati a un consumo eccessivo di carne e prodotti di origine animale.
La carne coltivata
L’industria della carne sta quindi tentando di cambiare il proprio volto e di innovarsi. Uno dei prodotti proposti è rappresentato dalla carne coltivata. La carne coltivata utilizza cellule staminali di animali che si moltiplicano in vitro o in bioreattori usando processi biotecnologici propri della medicina rigenerativa (gli stessi impiegati per produrre cellule, tessuti, organi, utili nei trapianti su esseri umani) in modo da ottenere carne simile a quella di derivazione animale.
Le cellule utilizzate per avviare la coltura cellulare possono essere ottenute con una biopsia da muscoli animali vivi o macellati; in alternativa, vengono prodotte le linee cellulari (cellule staminali) con metodi di ingegneria genetica, editing genico o mutazioni indotte o spontanee. Le cellule si riproducono in liquidi che contengono sostanze nutrienti necessarie a far crescere i tessuti. Questa fase può richiedere siero fetale di vitello o di cavallo, embrioni di pollo, collagene, ecc., a seconda dalla specie cellulare e dal tipo di tessuto che si vuole produrre. In questi liquidi possono essere aggiunti altri componenti, inorganici e organici (antibiotici/mitotici, carboidrati, sali, micronutrienti, amminoacidi, vitamine, conservanti aromi, colori e altri additivi e coadiuvanti tecnologici).
La carne coltivata si può riprodurre in vitro in un bioreattore a due fasi. In quest’ultimo caso, in una prima fase le cellule starter crescono rapidamente in sospensione, poi si spostano in un contenitore in cui si differenziano in tessuto muscolare, grasso e tessuto connettivo. È poi necessaria una sorta di impalcatura che permette ai nutrienti e all’ossigeno di fluire attraverso gli strati cellulari e produrre sottili strati di tessuto. Questo processo richiede molta energia.
La carne ottenuta con queste tecniche è “biologicamente equivalente“, cioè identica dal punto di vista molecolare e genetico, e in grado di fornire un’esperienza di consumo all’incirca equivalente a quella della carne di animali allevati, al contrario di altri sostituti della carne fatti con soia, fagioli, funghi, ecc. Secondo il produttore Mosa Meat, società olandese di tecnologia alimentare, da poche cellule di bovino si possono ottenere circa 1.000 tonnellate di tessuto muscolare. Bisogna, però, riuscire a produrre quantitativi enormi di carne coltivata, se la si vuole proporre come un’alternativa concreta ai consumatori di carne animale. Per portare sul mercato la carne coltivata le aziende devono però risolvere ancora alcuni problemi tecnici importanti.
Effetti sull’ambiente del consumo di alimenti alternativi alla carne
Le Associazioni animaliste italiane sostengono che rispetto alla carne convenzionale questa tecnologia potrebbe ridurre il consumo di energia, suolo e acqua, riducendo notevolmente le emissioni di gas serra. Entro il 2030, secondo un’analisi di McKinsey, la carne sintetica costerà quanto quella animale. E gli analisti di Barclays stimano che il business della carne sintetica raggiungerà i 450 miliardi di dollari nel 2040. Gli Animalisti non hanno dubbi. «Dal punto di vista del benessere animale, la carne coltivata è un’alternativa etica alla produzione di carne, che comporta mesi o anni di sofferenze in allevamento e che si conclude con l’uccisione degli animali», commenta il presidente dell’Oipa, Massimo Comparotto. «Può rappresentare un’alternativa cruelty free alla produzione di carne che può andare incontro a chi ancora non ha abbracciato la scelta vegetariana o vegana, che noi comunque auspichiamo».
Se è pur vero che le alternative oggi esistenti al consumo di carne proveniente da animali sfruttati negli allevamenti intensivi sono: la riduzione del consumo di carne e la sostituzione con una dieta vegetariana, il consumo di insetti, il consumo di sostituti a base vegetale e la carne coltivata, tuttavia, esistono ancora dubbi da chiarire proprio a riguardo di quest’ultima. Infatti, la soluzione che consente il minore uso di suolo è quella che prevede la riduzione dei consumi di carne e la loro sostituzione con vegetali (-55%), mentre la sostituzione con carne coltivata comporterebbe solo un risparmio del 29%. I sostitutivi classici (tofu, tempeh…) o gli insetti comporterebbero una riduzione di uso del suolo rispettivamente del 35% e del 34%.
Inoltre, bisogna anche considerare che Il marketing dei produttori delle “nuove carni” punta il dito contro l’allevamento, sottolineando in particolare il suo impatto ambientale, ma non propone ai consumatori di eliminare la carne dalla dieta (come fanno gli attivisti vegani), né chiede uno sforzo per ridurre i consumi e acquistare con più consapevolezza carne sostenibile (come fanno ad esempio Slow Food e Greenpeace).
Semplicemente propone un prodotto simile alla carne, dal prezzo competitivo, meno impattante dal punto di vista ambientale e, per di più, presentato come “ più etico” per quel che riguarda il rapporto con gli animali. Ma è davvero così?
I costi nascosti dei sostitutivi della carne
Secondo l’analisi del ciclo di vita (LCA), la carne coltivata necessiterebbe di un quantitativo minore di acqua (meno 82-96%), produrrebbe meno gas a effetto serra (meno 78-96%), utilizzerebbe meno energia (meno 7-45%) e comporterebbe un minore uso del suolo (meno 99%) rispetto alla produzione convenzionale di carne bovina, suina, ovina e avicola. Solo il pollame allevato convenzionalmente consumerebbe meno energia della carne coltivata in laboratorio. Inoltre, la sua produzione libererebbe molto terreno dedicato alla coltivazione di cereali e leguminose per i mangimi. Ma questi dati sono già stati rettificati da ulteriori studi che hanno valutato come molto impattanti le emissioni legate al funzionamento dei bioreattori e per la produzione dei mezzi di coltura.
Uno studio di alcuni ricercatori americani ha segnalato un significativo consumo energetico. Secondo il loro calcolo dell’LCA, la carne coltivata avrebbe un maggiore potenziale di riscaldamento globale rispetto alla carne suina o al pollame, ma sarebbe comunque inferiore a quella bovina, pur mantenendo significativi risparmi nell’uso del suolo.
Gli aspetti etici evidenti della carne coltivata dovrebbero garantire l’interesse di chi respinge il consumo di carne animale. Uno studio ha stimato il numero di animali ai quali il consumo di carne coltivata potrebbe eventualmente evitare la macellazione ogni anno: 7,5 miliardi in Europa e 9,1 miliardi negli USA.
La carne coltivata non può però essere definita automaticamente “cruelty-free” perché il prelievo di cellule avviene anche su animali già macellati. Anche la pratica con la quale si estrae il siero usato come mezzo di crescita per sviluppare le cellule stesse è criticabile per chi rifiuta la soppressione degli animali. Si preleva praticando un’iniezione nel cuore del feto del vitello al momento della macellazione della madre, provocando dolore e morte. Attualmente va segnalato che sono allo studio sostituti del siero fetale bovino, che viene ancora oggi molto utilizzato nelle colture cellulari nei bioreattori; ma attualmente sono ancora in fase sperimentale.
Ma al di là di alcuni aspetti tecnici, che potrebbero essere risolti nel tempo, alcuni fanno notare che gli esseri umani dovrebbero elaborare la consapevolezza che è crudele, inutile e disgustoso alimentarsi di un essere senziente, tollerare la sua sofferenza e la sua morte per un bisogno che non è reale e che può essere assolto consumando cibi di origine vegetale.
Letture consigliate
World Agriculture towards 2030/2050, The 2012 Revision, ESA Working Paper No. 12-03, FAO (2019)
From lab to fork. Critical questions on laboratory-created animal product alternatives. Friends of the Earth (2018)