È noto come Pacific Trash Vortex, ossia vortice di immondizia del Pacifico, oppure come isola di plastica. In realtà sarebbe più corretto chiamarlo continente di plastica, visto che questo enorme cumulo di spazzatura galleggiante ha una dimensione che oscilla tra la penisola iberica e gli Stati Uniti.
Situato a nord dell’arcipelago delle Hawaii si è determinato a partire dagli anni Ottanta, a causa del movimento a spirale delle correnti oceaniche attorno ad un’area relativamente stazionaria, il cuore dello stato dell’immondizia.
Il Garbage Patch State
Sì, perché nel 2013 in maniera provocatoria l’artista italiana Maria Cristina Finucci ha fondato il Garbage Patch State, pronunciando il relativo discorso di insediamento presso la sede dell’Unesco a Parigi. Si tratta purtroppo di uno stato federale, perché ahimè di chiazze di immondizia galleggiante ce ne sono diverse altre.
La questione, al di là della provocazione, non è evidentemente solo estetica. A differenza infatti dei rifiuti galleggianti di origine biologica che sono sottoposti a biodegradazione spontanea, i materiali non biodegradabili come le plastiche si fotodegradano per azione della luce solare in pezzi sempre più piccoli, fino a raggiungere le dimensioni dei singoli polimeri che li compongono. Si tratta di filamenti che hanno un comportamento idrostatico simile al plancton, vengono ingeriti come tali e entrano così nella catena alimentare. Per non parlare del fatto che la plastica fornisce il supporto idoneo per la stratificazione di colonie batteriche, alcune delle quali particolarmente resistenti e potenzialmente patogene.
Possibili soluzioni
Cosa fare dunque? Intanto nel 2018 è stato attivato un interessantissimo progetto di pulitura degli oceani dalla plastica. Si tratta di Ocean Cleanup, nato dalla mente di un giovane olandese di origine croata che si chiama Boyan Slat. Il giovane Slat ha interrotto gli studi di ingegneria aerospaziale a Delft per dedicarsi a tempo pieno a questo progetto, concepito già all’età di 16 anni, quando durante un’immersione in Grecia trovò davanti a sé più plastica che pesci rimanendone turbato.
Il processo di pulitura è a costo zero, poiché sfrutta l’energia del sole e delle correnti marine riciclando a terra il materiale raccolto. Purtroppo però le microplastiche, a differenza dei rifiuti di più grandi dimensioni, sembrerebbero sfuggire al momento alla raccolta. Ciò nulla toglie all’opera meritoria del giovane olandese, nella speranza che possa essere perfezionata e soprattutto replicata altrove.
Infatti come detto di isole di plastica purtroppo ce ne sono tante: Artic Garbage Patch, Indian Ocean Garbage Patch, South Atlantic Garbage Patch, South Pacific Garbage Patch, oltre che la già citata Great Pacific Garbage Patch. Niente paura però, ne abbiamo anche nel Mediterraneo, in particolare una proprio vicino a casa nostra, tra l’isola d’Elba e la Corsica. Si tratterebbe di un’isola di plastica che si forma ciclicamente, dura qualche settimana, o al massimo due o tre mesi, e poi si scompone nuovamente nel mare, prima di riformarsi per decine di chilometri.
La produzione di plastica
La produzione di plastica è sicuramente legata al nostro modello economico, se è vero come è vero che la sua produzione è calata sensibilmente solo in coincidenza delle ultime crisi economiche (pandemia compresa). Ridurre la produzione di plastica vergine, preferendo riciclarla il più possibile, è una misura auspicabile, partendo dalla ormai intollerabile plastica monouso. Peraltro secondo uno studio pubblicato dal movimento globale Break Free From Plastic e dal CIEL (Centro non governativo per il diritto ambientale internazionale) ridurre la plastica monouso e degli imballaggi contribuirebbe anche a ridurre il consumo di combustibili fossili e quindi la produzione di CO2, oltre che alleggerire la bolletta energetica in una situazione di crisi strutturale legata al conflitto russo/ucraino.
Infatti il 15% del consumo di gas e il 14% di petrolio della UE sono indirizzati alla produzione petrolchimica, per la massima parte quella relativa a materie plastiche e nello specifico a materie plastiche monouso. Basterebbe solo un poco di buon senso e politiche più accorte nell’interesse collettivo e non in quello particolare. Ci scontriamo invece quotidianamente con limiti atavici nel nostro modo di pensare e comportarci, lo stesso metaforicamente rappresentato da Manzoni nel XII capitolo dei Promessi Sposi, quello dell’arrivo di Renzo a Milano, quando assiste alla furia distruttiva con la quale il popolo meneghino, attanagliano dalla carestia, assalta e distrugge i forni ancora attivi alla ricerca dell’agognato pane. Renzo con il suo animo contadino e sempliciotto borbotta: “Questa poi non è una bella cosa, se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi??“