pittura

Nel 1614 il sommo poeta napoletano Gian Battista Marino, uno dei più grandi esponenti del barocco italiano, scriveva: “la diligenza ne’ pittori mortali è fallace”. Con queste parole esordiva nel Discorso sulla pittura, parte iniziale delle Dicerie sacre. Cosa voleva dire?

Sostanzialmente che i pittori, per quanto abili, non sono in grado di riprodurre appieno le sfumature infinitamente mutevoli sia delle cose esterne che dei moti interni dell’animo umano. Riprendendo il pensiero di Platone, riscoperto ampiamente nel Seicento, si sosteneva cioè che l’arte era imitazione della realtà, ma che solo la realtà fosse un dipinto assoluto, capace di contenere in sé ogni mutevolezza, ogni sfumatura, ogni diversità.

La fascinatio

Marino sapeva bene che questo non valeva solo per la pittura, ma anche per la poesia ed era convinto che tutto avvenisse principalmente attraverso lo strumento della vista, cioè era grazie alle immagini ottenute attraverso la vista, che il poeta poteva poi trovare ispirazione traducendo quelle immagini in versi e suscitando meraviglia. Era proprio una cosa fisica, nel senso che come aveva postulato Marsilio Ficino nel suo trattato sull’amore, il de Amore, il meccanismo aveva come punto d’arrivo la fascinatio.

L’amore secondo Ficino funzionava più o meno così: dall’occhio veniva emanata una sostanza sottile che descriveva come vere e proprie frecce e questa sostanza era in grado di insinuarsi nel sangue della persona fissata inoculandovi la malattia, rendendogli impossibile pensare ad altra persona. La fascinatio era dunque il vero potere della vista, ma questa poteva sortire anche un effetto opposto se animata da altro sentimento, il celebre mal d’occhio o malocchio. Tuttavia anche gli altri sensi, secondo i dotti dell’epoca erano soggetti agli stessi meccanismi, anche se meno esposti.

La musica

La capacità di esercitare questa sorta di incantesimo non era una prerogativa solo della sola pittura, in quanto imitazione della realtà visiva, ma anche ad esempio della musica. Ci fu quindi un tempo in cui la musica fu pensata in modo molto concreto, come di una sostanza dotata di una propria fisicità e capace di destare meraviglia. Non è un caso quindi che dal medioevo in poi la musica sia stata vista con sospetto o sia stata duramente condannata, a causa della sua indiscussa relazione con il mondo delle emozioni.

Tra gli strumenti musicali quello che più di tutti, per versatilità di suono, ha avuto storicamente l’ambizione di rappresentare la natura e la sua ciclicità è il violino. A Venezia nel 1725, presso un orfanotrofio dove orfane e trovatelle venivano educate alla musica, all’arte strumentale e al canto, un abate che era solito comporre concerti su concerti compose le celebri Quattro Stagioni. Era “il prete rosso famoso che suona il violin”: Antonio Vivaldi.

Imitare la natura in musica non era certo una novità, lo era invece provare ad usare gli strumenti per riprodurre fedelmente gli elementi della natura. Per esempio riprodurre l’azione del vento sferzando gli archi, oppure evocare il battito della pioggia con il pizzicato. Una sfida a quei tempi riuscita se il critico musicale francese François Raguenet affermava: “Se bisogna fare una sinfonia che esprima la tempesta e il furore, gli italiani ne imprimono così bene il carattere, che spesso la realtà non agisce con altrettanta forza sull’animo; tutto è così vivo, così acuto e penetrante, così pieno di impeto, così sconvolgente che l’immaginazione, i sensi, l’anima, il corpo stesso sono trascinati in un unico slancio”.

Il violino fu il protagonista di questa rivoluzione, strumento già all’epoca definito nelle sue potenzialità. Non è facile ricostruire le sue origini, in quanto tanti strumenti precedenti concorsero alla sua formazione. Sicuramente però nel 1535 comparve per la prima volta nel duomo di Saronno un affresco che rappresentava un concerto celeste con tre angeli impegnati a suonare degli strumenti a tre corde più o meno simili al violino. Prima Brescia e poi Cremona si affermarono come centro della liuteria violinista. Molto duttile, capace di eseguire con grande rapidità sequenze complesse di note, con un tono capace di emergere chiaramente sopra gli altri strumenti. L’espressività, la capacità di avvicinarsi alla voce umana, sia per le possibilità del vibrato che per la capacità di intervenire con variazioni anche minime sul tono, lo resero la voce ideale per la melodia, lo strumento ideale per affascinare come solo la natura è capace di fare.

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