sinistra

 Lo scorso novembre Luca Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati, ha pubblicato un interessante saggio dal titolo “La Mutazione”, nel quale si esprimono considerazioni e valutazioni su una inequivocabile tendenza politica manifestatasi negli ultimi anni e cioè la sempre maggiore attrattiva esercitata dalle destre su vaste fette delle masse popolari. La domanda allora nasce spontanea: che fine ha fatto la sinistra popolare e come è potuto succedere? È il popolo che ha cambiato idea o sono le idee ad aver cambiato posto? La riflessione mi pare estremamente stimolante e meritevole di attenzione.

L’evoluzione della sinistra e della destra

Il punto è che con la caduta del muro di Berlino nel 1989 il mondo è profondamente cambiato, anche se secondo l’autore la crisi identitaria della sinistra italiana sarebbe ancora più antica, tanto da coincidere con la nascita del centrosinistra politico (l’ingresso al governo del Paese del partito socialista italiano) e il successivo perseguimento da parte del partito comunista del compromesso storico con la Dc. Questo avrebbe infatti prodotto atteggiamenti via via più morbidi verso la classe dirigente e il ceto borghese, allontanando progressivamente la sinistra dalla sua base storica.

D’altra parte però, come si diceva, il mondo non è più lo stesso e quella base fatta di operai nelle grandi fabbriche e prima ancora di contadini  e braccianti sfruttati di fatto si è parecchio ridimensionata. La sinistra in Italia con la svolta della Bolognina, ma oggettivamente anche fuori dai confini nazionali, ha dunque abbracciato definitivamente la logica del libero mercato e della globalizzazione. Si tratta di una logica estremamente individualista e competitiva, che ha convinto parecchi dirigenti politici a spostare l’agone della contrapposizione dialettica sul piano dei diritti individuali e su quello della libera circolazione delle persone, con particolare attenzione ai flussi migratori da paesi più poveri.

Non deve sorprendere quindi che gli esponenti della sinistra più radicale, comunitaria e anticapitalista, siano finiti a loro volta sulle barricate, essendosi palesato un tradimento sostanziale dei principi di un tempo. È nata dunque una sinistra della sinistra, che però non ha attecchito molto, divisa in mille fazioni e svuotata da un competitor imprevedibile, vale a dire la destra populista. Termine oggi spesso usato in maniera sprezzante, a testimonianza di un altro limite dell’attuale classe dirigente a sinistra, la convinzione di essere e di rappresentare come più volte enunciato la parte migliore del Paese.

Anche la destra è cambiata, finendo per essere oggetto della stessa evoluzione, ma in senso contrario. È come se entrambi gli orientamenti politici si siano divisi in due fazioni, una comunitaria e un’altra individualista e globalizzatrice. A fianco alla storica destra ultraliberista, evidentemente favorevole come la sinistra di governo alla globalizzazione e alla circolazione delle persone, si è via via consolidata una destra comunitaria, ostile agli immigrati, sovranista e identitaria: al cosmopolitismo borghese andrebbe contestata “L’indifferenza nei confronti di tutte le tradizioni popolari e di tutti i confini geografici e dunque di ogni cultura autentica”. Di chi sono queste parole? Di Jean Paul Michea, eminente filosofo francese di estrema sinistra. Sì, di estrema sinistra, un paradosso poco paradosso alla luce di quanto si è detto e della stratificazione della società che descrive Ricolfi.

Le tre società italiane

L’autore facendo riferimento in particolare alla realtà italiana, simile in ogni caso ad altre realtà europee, parla di una frattura che avrebbe generato tre diverse società più o meno equipollenti come dimensioni. La prima società è identificata come quella delle garanzie, costituita dagli occupati dipendenti il cui posto di lavoro è protetto dalle leggi e dalle tutele sindacali. La seconda società sarebbe quella del rischio, costituita da un esercito di lavoratori autonomi e da lavoratori dipendenti che, pur assunti in modo regolare, sperimentano qualche regime di precarietà. Vale a dire dipendenti con contratto di lavoro a termine o a tempo indeterminato ma presso piccole imprese (fino a 15 dipendenti). La terza infine è identificata come società degli esclusi, quelli che hanno perso il lavoro, che lavorano completamente in nero, che il lavoro hanno smesso di cercarlo. Oggi le destre di ispirazione comunitaria sembrano intercettare le rabbie e le aspirazioni dei secondi e dei terzi, la sinistra invece solo della prima di queste società, mediamente quella più istruita, ma anche quella più garantita. Una riflessione si impone.

E i Verdi? Anche i Verdi rischiano a mio avviso di finire nello stesso dualismo che pare caratterizzare ogni orientamento politico. Ecologismo radical chic e di governo, oppure ecologismo con spiccato senso comunitario, intransigente a partire dalle periferie e da chi paga il prezzo più alto dei continui disastri ambientali? Mi sembrerebbe paradossale partire da chi il disastro lo ha generato o da chi prova ad addomesticarlo in un nuovo business per pochi eletti.

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