Lo spreco di cibo nel mondo ed in Italia è una questione seria, lo è da un punto di vista “banalmente” sociale ma anche da un punto di vista ambientale.
I dati della FAO
Vale la pena a tal proposito sottolineare alcuni dati forniti da un recente rapporto della FAO, che evidenzia come ogni anno la metà della frutta e degli ortaggi prodotti a livello globale vadano persi o sprecati, così come, cosa ancora più grave, il 25% di tutta la carne prodotta ed equivalente a 75 milioni di mucche non venga affatto consumata. E pensare che una morte su cinque di esseri umani nel mondo è associata a diete di scarsa qualità.
I dati della FAO evidenziano come nei paesi a basso reddito la perdita di cibo è prevalentemente associata alle operazioni di raccolta, lavorazione, stoccaggio e trasporto, mentre nei paesi ad alto reddito lo spreco è concentrato soprattutto nella vendita al dettaglio e nel consumo di cibo stesso. Una perdita annuale quantificata nell’astronomica cifra di un trilione di dollari, senza considerare lo spreco di terra, energia ed acqua ad essa connessa.
Le soluzioni allo spreco di cibo
Secondo il manuale Toolkit: Reducing the Food Wastage Footprint, prodotto dalla stessa FAO, bisognerebbe cominciare ad intervenire attraverso politiche idonee proprio con lo sviluppo di nuove e migliori tecniche di raccolta, stoccaggio, trasformazione, trasporto, nonché di vendita al dettaglio. Le cause delle perdite al momento del raccolto possono essere di varia natura, riconducibili ad esempio a tempismo sbagliato, cattive condizioni meteorologiche, attrezzature inadeguate. Allo stesso modo cattive infrastrutture per il trasporto e l’immagazzinamento, soprattutto nelle realtà caratterizzate da climi caldi, possono generare perdite e sprechi evitabilissimi.
Nelle Filippine ad esempio è stato sufficiente adottare una nuova e migliore qualità di sacchi per l’immagazzinamento del riso per vedere ridotte le perdite di un buon 15%, così come in Africa occidentale l’impiego di essiccatori solari ha esteso notevolmente la durata di frutta e tuberi riducendo sensibilmente le perdite post-raccolto. Non bisogna poi sottovalutare l’impatto positivo che una puntuale e corretta informazione sulle pratiche migliori può determinare negli stessi agricoltori o l’estensione dell’organizzazione cooperativa che allo stesso modo, liberando questi ultimi dall’isolamento, consente loro di meglio conoscere il mercato e le sue dinamiche commerciali, in definitiva di pianificare la produzione con cognizione di causa.
Invece sul fronte delle perdite al dettaglio occorrerebbe in primis, a cominciare dalle imprese con una grande impronta alimentare quali le grandi mense ed affini, effettuare una puntigliosa analisi di verifica per capire come e perché si spreca cibo, identificando nuovi orientamenti per ridurre il fenomeno. Poi sarebbe sicuramente utile migliorare la comunicazione tra fornitori e rivenditori, così come al dettaglio e persino tra le pareti domestiche effettuare una corretta valutazione tra acquisti e reali bisogni. Questo significa anche, facendo esempi concreti e facilmente comprensibili, evitare di cucinare per cinque persone se a cena ve ne sono solo tre, evitare che ristoranti acquistino più cibo del necessario o che certi supermercati riducano gli ordini all’ultimo minuto lasciando ai produttori prodotti divenuti ormai invendibili.
Una diversa gestione è necessaria
Soprattutto nei paesi sviluppati occorre lavorare su una nuova e diversa consapevolezza ambientale, rivedendo gli standard estetici per la frutta e la verdura, che spingono verso il macero grandi quantità di cibo con la sola colpa di non essere abbastanza bello, così come le etichette di consumo che spesso confondono un “da vendere preferibilmente” con “ un da vendere entro”.
Ovviamente ridistribuire le eccedenze alimentari di buona qualità a chi ne ha bisogno è la strada maestra per gestire il problema degli sprechi alimentari. Oggi purtroppo però la quantità di cibo ridistribuito alle associazioni no-profit che offrono da mangiare a chi ne ha bisogno rimane una piccola frazione delle eccedenze alimentari. Questo perché molti rivenditori sono persuasi che sia più economico e facile spedire in discarica le eccedenze ed il cibo scartato, ma soprattutto hanno il timore di poter scivolare su una buccia di banana, rappresentata dal rischio di intossicazione o di malattia degli utenti finali venendone di fatto considerati giuridicamente responsabili. In sostanza per non avere grane si preferisce buttare via tutto. Il manuale FAO sottolinea come molti governi stiano tassando in maniera sostanziosa chi getta in discarica e nello stesso tempo si stiano muovendo per esimere i soggetti in questione, se in buona fede, dai sopracitati rischi giuridici, in maniera da attivare complessivamente un circolo virtuoso.
In Italia
In Italia secondo i dati del Politecnico di Milano una famiglia spende circa 399 euro mensili in prodotti alimentari e butta ogni anno nella pattumiera cibo per un valore di 454 euro. Tradotto, ogni dodici famiglie una potrebbe mangiare gratis. La questione è ovviamente anche ambientale e da questo punto di vista l’imperativo è, se possibile, evitare per i rifiuti alimentari la discarica.
Le discariche infatti rappresentano con le loro emissioni di metano una delle più grandi fonti di gas serra provenienti dal settore dei rifiuti. Affinchè gli enti preposti possano riciclare occorre evidentemente iniziare a livello familiare con la raccolta differenziata. I rifiuti alimentari ben separati e raccolti possono così essere riutilizzati, grazie alla decomposizione anaerobica, trasformandoli in composti fertilizzanti ed in biogas che può essere tranquillamente utilizzato come fonte energetica o iniettato nella rete del gas. Come ultima spiaggia, pur di evitare il ricorso alla discarica, vi è l’incenerimento dal quale processo è possibile ricavare almeno energia riutilizzabile.