autonomia

I fautori dell’autonomia regionale affermano che tale assetto politico-amministrativo ha il pregio di valorizzare il territorio, di responsabilizzare chi amministra a livello locale in modo da ridurne gli sprechi e di aumentarne l’efficienza amministrativa.

Questa proposta è già stata avanzata da nove regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania. Lombardia e Veneto hanno anche svolto un referendum sull’argomento e tra queste più Emilia-Romagna e Piemonte si è giunti alla fase di intesa stato-regioni.

La legge

L’autonomia regionale, detta anche differenziata, è una potestà riconosciuta dall’articolo 116 della Costituzione dopo la modifica avvenuta con la riforma costituzionale del Titolo V approvata nel 2001. L’art. 116 della Costituzione, che nel primo e secondo comma riconosce le regioni a statuto speciale, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (“regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre).

L’ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concerne tutte le materie che l’art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente. Tali materie sono: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Le competenze esclusive dello Stato riguarderebbero un ulteriore limitato numero di materie quali: organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Sul tema energia sarebbe, a mio avviso, opportuno anche alla luce delle recenti criticità internazionali, che rendono difficoltoso reperire risorse, mantenere nella sfera di competenza esclusiva dello Stato la gestione strategica delle politiche energetiche.

Lo stato dell’arte

A che punto è giunto l’iter legislativo con attuazione delle autonomie in oggetto? L’attribuzione di tali forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi dell’art. 119 della Costituzione in tema di autonomia finanziaria, mentre, dal punto di vista procedurale, è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti. Su questi temi, alla fine della XVII legislatura, è stata attuata una Commissione bicamerale, che nel documento conclusivo ha evidenziato come il percorso autonomistico delineato dall’articolo 116, terzo comma, miri ad arricchire i contenuti ed a completare l’autonomia ordinaria. L’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, secondo il documento, non deve peraltro essere intesa in alcun modo come lesiva dell’unitarietà della Repubblica e del principio solidaristico che la contraddistingue.

Centrale si rivela il tema delle risorse finanziarie che devono accompagnare il processo di rafforzamento dell’autonomia regionale nel rispetto del principio, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, della necessaria correlazione tra funzioni regionali rafforzate e risorse disponibili a tal fine. Tuttavia, è proprio in quest’assunto che il diavolo si nasconde nei dettagli. Infatti, il 22 giugno ultimo scorso presso la sede del ministero per gli Affari Regionali, sul tavolo del ministro Maria Stella Gelmini è approdata la bozza definitiva di quella legge quadro sulla autonomia differenziata chiesta dal Veneto con un referendum plebiscitario il 22 ottobre 2017. Al tavolo ministeriale si sono seduti i governatori del Nord: il lombardo Attilio Fontana, l’emiliano Stefano Bonaccini, il ligure Giovanni Toti, il toscano Eugenio Giani e ovviamente, il veneto Luca Zaia. Il DDL Gelmini sulla autonomia differenziata è un testo breve frutto della intraprendenza di tre regioni settentrionali, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che hanno iniziato il percorso verso il regionalismo differenziato ben 4 anni fa (28 febbraio 2018), con la sigla delle pre-intese con il governo Gentiloni.

Secondo il DDL Gelmini unico requisito per il trasferimento di competenze riguardo istruzione, sanità, assistenza, trasporto pubblico locale sarà la definizione dei livelli essenziali di prestazione (lep) che dovrebbero essere uniformi su tutto il territorio nazionale, e, al momento non lo sono. Ma l’aspetto più iniquo del provvedimento è l’art. 4 che riguarda la famosa “spesa storica” ed afferma: “Le risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie all’esercizio da parte della Regione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sono definiti dall’intesa di cui all’articolo 2 nei termini di spesa storica sostenuta dalle amministrazioni statali nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti alle funzioni conferite quale criterio da superare a regime con la determinazione dei costi, dei fabbisogni standard (…)” Quindi la base di partenza del regionalismo differenziato non è altro che la certificazione delle disuguaglianze storiche, pertanto se un’amministrazione non ha realizzato in modo adeguato i servizi pubblici vuol dire che i cittadini di quella regione possono farne a meno e quindi non avranno i denari per recuperare il gap, che tante diseguaglianze crea tra cittadini del nord e del sud.

Infatti, secondo i dati dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), istituzione che fa parte dell’Agenzia per la coesione territoriale, e che includono tutti i flussi finanziari dal centro alla periferia, anche quelli del cosiddetto “settore pubblico allargato”, cioè le società di diritto privato a controllo pubblico, sul totale della pubblica amministrazione il Centro-Nord supera il Sud con una spesa pro capite di 13.400 euro contro i 10.900. Se nel conto si include anche il settore pubblico allargato il divario arriva a quasi 4 mila euro a persona, con una spesa pubblica pro capite al Centro-Nord pari a 17 mila euro e al Sud pari a 13.300.

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