Negli ultimi anni, con l’affermazione della rete e dei social network, abbiamo assistito ad un fenomeno che era del tutto imprevedibile quando internet ha cominciato a diffondersi. L’aspetto più interessante della rete era parso all’inizio la fine definitiva di filtri o censure che dir si voglia, in quanto le informazioni cominciavano a fluire liberamente, addirittura su scala mondiale, rendendo praticamente impossibile arrestarle o porvi qualche sorta di freno. A tanti era parso che la democrazia potesse così rinforzarsi a livello generale, perché ognuno era in grado di attingere ad una mole enorme di informazioni di origine e fonti completamente diverse. Le cose però non sembrano essere andate proprio così e già nel 2011 l’autore ed attivista statunitense Eli Parisier, con il suo libro The filter bubble, mise l’accento su un aspetto molto interessante e per certi aspetti inquietante della questione.
Una questione di Marketing
I problemi nascono, ça va sans dire e senza scomodare necessariamente le immancabili idee cospirazioniste, dalla tensione verso obiettivi di lucro che anche i social media, forti della possibilità di acquisire infinite informazioni su di noi e sui nostri orientamenti, hanno messo in campo. Avete presente le fidelity card nei supermercati? Il meccanismo se volete è lo stesso. Vado a fare la spesa al supermercato e in nome di un irrisorio sconto alla cassa lascio traccia, senza rendermene conto, di tutti i miei acquisti, permettendo nel tempo a chi vuole vendermi qualcosa di sapere esattamente cosa mi piace e cosa no.
È il cosiddetto direct marketing, evoluzione di un marketing più generico e grossolano che ha caratterizzato invece il dopoguerra, quando i gusti delle persone erano meno complessi e un messaggio pubblicitario generico era sufficiente per raggiungere tutti. Non si assisteva allora, come invece succede oggi, ad una vera e propria atomizzazione dei comportamenti e dei gusti delle persone. Ebbene allo stesso modo i social media hanno approntato algoritmi sempre più sofisticati e studiati per offrire servizi e comunicazioni ad personam, pensati cioè per andare incontro ai gusti manifestati nel tempo dai singoli utenti.
La cosa però non riguarda solo l’aspetto più propriamente commerciale, ma anche il flusso di informazioni più generale, che ha molto a che fare con il modo in cui si formano le opinioni dei singoli sugli argomenti più svariati. L’esempio in Italia più banale per contenuti, ma non per il numero di persone coinvolte, è il calcio. Capita spesso quando ci si confronta il lunedì sulle solite vicende calcistiche foriere di polemiche, come il fallo fischiato oppure no, l’errore arbitrale e via discorrendo, che i tifosi di una stessa squadra, pur vivendo in posti lontanissimi ma bevendo alle stesse fonti, dicano tutti esattamente le stesse cose ed esprimano le medesime opinioni. Ma soprattutto tendono a polemizzare in maniera molto più aggressiva che in passato, sempre più intolleranti e infastiditi da opinioni di altro segno. Fin quando si tratta di calcio poco male, ma quando ci si sposta sulla politica o su ambiti più “sensibili” le cose acquistano un peso ed una pericolosità ben diversi e destano non poca preoccupazione.
Rinchiusi in una bolla
Il modo in cui le opinioni si formano in rete è quindi sempre più espressione di una bolla, un luogo virtuale cioè dove tutti i convitati sono uniti dalla stessa idea o dallo stesso modo di pensare, dove quindi manca totalmente il confronto con opinioni diverse e questo determina una radicalizzazione sempre più marcata, di cui purtroppo gli esempi abbondano. La tesi di Eli Parisier espressa nel 2011 andava proprio in questa direzione.
In realtà quello delle bolle di filtraggio non è proprio un concetto nuovo, in quanto qualche decennio fa a proposito dei media tradizionali quali televisioni e giornali si parlava di eco chambers, camere con eco, esprimendo un concetto simile. Capitava, soprattutto in Italia dove ci sono sempre stati degli editori spuri, che si creassero cartelli caratterizzati da una comunicazione univoca e spesso corrispondente ad una certa area politico elettorale. La principale differenza rispetto a oggi è che allora questa suddivisione era più o meno nota e quindi l’utente si indirizzava “liberamente” da una parte o dall’altra.
Oggi al contrario tutto avviene in maniera silente attraverso cookies e algoritmi e questo ha determinato quella che alcuni analisti definiscono cyberbalkanization, ossia la balcanizzazione della rete, la creazione di fatto di miliardi di reti, tutte diverse in quanto corrispondenti alle propensioni e alle idee di ciascuno. Tutto questo produce evidentemente isolamento ideologico ed ambienti confermativi, che hanno come conseguenza polarizzazione ed estremizzazione. È opinione diffusa che questo, soffocando pesantemente il dibattito pubblico, favorisca l’ascesa di movimenti smaccatamente e violentemente populisti. La vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane del 2016 e la tumultuosa chiusura di quel mandato ne rappresenterebbero un esempio fulgido. Ma anche in Europa e naturalmente in Italia le cose non sembrano andare diversamente. Unica consolazione gli interventi normativi in materia di cookies e l’approvazione a livello europeo del GDPR, in materia di trattamento dei dati, che hanno provato a mettere un freno in tal senso, contrastando una fin troppo evidente violazione della privacy.