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Instabilità climatica e livelli estremi di sopravvivenza

La crisi del clima è ormai una realtà le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è nessun luogo sul Pianeta che sia al riparo dagli effetti di questa emergenza. Eventi estremi ed improvvisi sono sempre più frequenti, così come i lunghi periodi di siccità e le temperature altissime che rendono invivibili le città. Lo sanno bene i duecentomila abitanti di Jacobabad, in Pakistan, o i quasi trecentocinquantamila di Ras Al Khaimah, negli Emirati Arabi Uniti, dove, lo scorso anno, la temperatura ha raggiunto una soglia incompatibile con la vita umana: 52 gradi centigradi!

Per far fronte al caldo torrido nella città di Ras al Khaimah, così come accade anche in alcune zone della Cina, si sperimenta il cloud seeding, una tecnica che permette di controllare il meteo e le piogge. Con l’aiuto di razzi o aerei si spara in aria ioduro d’argento o anidride carbonica allo stato solido (il ghiaccio secco) in modo tale da creare delle nuvole a specifiche altitudini e causare quindi le piogge. Questa pratica, utilizzata non solo per far fronte al riscaldamento globale ma anche per favorire la produzione agricola, rischia comunque di sconvolgere ulteriormente la stabilità climatica perché altera i cicli in modo innaturale e non rappresenta la soluzione per il caldo estremo che, unito agli altissimi livelli di umidità, causa disagi e malori che possono portare anche alla morte.

L’unica soluzione più sicura resta l’abbandono della propria terra verso mete, climaticamente, più ospitali.

I nuovi profughi climatici

Da sempre le condizioni climatiche hanno influito sugli spostamenti dell’uomo, costretto a muoversi alla ricerca di luoghi maggiormente ospitali dove poter fissare la propria dimora.

L’instabilità climatica, dunque, è una minaccia non solo per la distruzione ambientale che essa comporta, ma anche per il genere umano. A causa dello stravolgimento climatico, secondo uno studio pubblicato dalla Banca Mondiale e intitolato Groundswell : Preparing for Internal Climate Migration, senza azioni concrete per il clima, nelle zone dell’Africa Sub-Sahariana, del sud – est asiatico e dell’America Latina, circa 143 milioni di persone saranno costrette a trasferirsi all’interno dei propri Paesi per sfuggire agli impatti della crisi climatica.

Saranno abbandonate le aree interessate da siccità e scarsa disponibilità d’acqua che comporta una drastica riduzione della produttività delle colture e quindi una crisi legata anche alla sicurezza alimentare, ma anche le aree costiere interessate dall’innalzamento del livello del mare e da mareggiate frequenti. Si stima che entro il 2050 le persone costrette a cambiare il posto in cui vivono, scegliendone uno più ospitale all’interno dei confini dei loro stessi Paesi d’origine, potrebbero essere oltre 216 milioni. Questa, però, è un’analisi parziale in quanto prende in considerazione solo i cambiamenti climatici cosiddetti “a lenta evoluzione” come la disponibilità di acqua, la produttività delle colture e l’aumento dei livelli del mare, non tenendo conto di fenomeni estremi ed improvvisi o dei Paesi a reddito elevato, né della regione del Medio Oriente o dei piccoli Stati insulari in via di sviluppo.

Possiamo, però, affermare con assoluta certezza che nessuna regione del globo è immune alle migrazioni indotte dal cambiamento climatico e alle conseguenze che da esse ne derivano. Dalle zone troppo aride per essere coltivate, a quelle colpite dal caldo torrido per essere abitate, alle aree completamente allagate, a quelle con clima troppo rigido per essere elette a dimora tutto l’anno, ogni luogo inospitale sarà abbandonato in cerca di un posto migliore. Così intere città cominceranno a svuotarsi per effetto della crisi climatica, ma altre osserveranno il fenomeno opposto: saranno scelte come nuova casa dai migranti climatici e si sovrappopoleranno sempre di più. E le sfide da affrontare, oltre a quelle ambientali, avranno a che fare con il lavoro, i servizi, la sanità, la sicurezza e tutto ciò che serve per vivere una vita sicura e dignitosa.

Non è difficile prevedere quale sarà la direzione dei flussi migratori: i Paesi poveri e quelli in via di sviluppo per secoli hanno subito i costi di produzione di prodotti consumati dai Paesi occidentali, spesso senza meccanismi adeguati di compensazione. Questi Paesi, dove la povertà è già una forte leva che spinge le persone a migrare, sono anche i luoghi più vulnerabili all’instabilità climatica; da qui milioni di “profughi climatici” si riverseranno nei ricchi Paesi europei o del Nord America in cerca di un futuro migliore. Come sta accadendo in Somalia, per esempio.

Somalia: un Paese estremamente vulnerabile

Lo Stato africano, già estremamente povero, versa in condizioni catastrofiche. Dopo 3 anni consecutivi privi della stagione delle piogge circa 81mila persone soffrono di carestia e stando alle stime del World Food Programme sono sei milioni coloro i quali vivono sotto la soglia di sicurezza alimentare. Una previsione delle Nazioni Unite rileva che quest’anno saranno circa 1,4 milioni i bambini colpiti da grave malnutrizione e 350 mila potrebbero addirittura morire se non saranno attivati adeguati programmi di assistenza alimentare. Secondo il Norwegian Refugee Council 745mila è il numero degli sfollati causati dall’ultima siccità. Migliaia di persone lasciano la loro casa e attraverso l’Etiopia, il Sudan, la Libia e il viaggio nel Mar Mediterraneo giungono in Europa pagando a volte prezzi oltre le migliaia di euro a trafficanti illegali senza scrupolo alcuno, altre volte con la loro stessa vita. Le motivazioni che spingono le persone ad emigrare sono molteplici, tra queste il cambiamento climatico gioca un ruolo fondamentale. Garantire aiuti e assistenza potrebbe essere una soluzione, come pure assicurare corridoi umanitari lungo i quali far transitare i profughi fino al raggiungimento di un luogo sicuro.

Rallentare le migrazioni dovute al cambiamento climatico è ancora possibile. Secondo gli autori del rapporto della Banca Mondiale citato in precedenza, azioni tempestive che mirino alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti possono ridurre dell’80% la migrazione interna.

Bisogna però agire subito e a livello globale.

Ed è questa la sfida più dura.

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