alimentazione

Il binomio cibo-ambiente è un tema di cui è necessario discutere: la nostra alimentazione, inoltre, impatta anche sugli ecosistemi producendo enormi quantità di Co2 a causa di allevamenti sregolati e cultura intensiva. Un discorso nel quale s’inserisce anche la promozione del local food contro la globalizzazione alimentare e i modelli consumistici. Ne parliamo con Caterina Lo Casto, food-writer, esperta di storia e cultura del cibo che da qualche tempo si occupa del rapporto tra alimentazione e ambiente.

Come incidono le abitudini alimentare sull’ambiente?

La perdita di biodiversità sta accelerando in tutto il mondo e il tasso globale di estinzione delle specie è molto superiore rispetto agli ultimi 10 milioni di anni. Il sistema alimentare globale, ovviamente, è il motore di questa tendenza. Negli ultimi 50 anni, per esempio, la conversione degli ecosistemi alla produzione di colture o allevamenti intensivi è la causa principale della perdita di habitat. Non è l’unico motivo chiaramente però è la prima causa della riduzione della biodiversità. Il nostro sistema alimentare purtroppo è ancora fondato sulla cultura dell’abbondanza come status e qui si sprofonda nella storia dell’alimentazione, nella cultura dell’alimentazione.

A cosa dobbiamo questo retaggio?

Pensiamo al Medioevo: a partire da allora la carne è stata considerata un simbolo di forza. La carne era destinata per lo più ai nobili. I vegetali erano di contorno o erano destinati per lo più al mondo contadino. Così come, per esempio il gusto del dolce e il gusto del salato, il dolce era appannaggio dei nobili e il salato era del contadino. Purtroppo questo retaggio culturale molto antico è arrivato sino a noi. Tuttora siamo bloccati nel “Bengodi”. Rimane ancora nel nostro DNA questa idea che mangiare tanto e all’infinito, si veda per esempio il modello all you can eat, che non è dissimile dal modo in cui ci alimentiamo. Quello che ho notato è che è difficile che esca dalla nostra mente, questo modo di approcciarsi al cibo.

Quanto impatta la globalizzazione in questo processo?

La globalizzazione sicuramente “livella i gusti” in qualche modo. Se pensiamo alla cucina nipponica e a quanto ha impattato nel nostro gusto, abbiamo cominciato a mangiare cose che non venivano considerate prima. Questo ha portato a una richiesta e un’offerta che ovviamente sono interdipendenti e quindi al bisogno, dunque a una spinta sociale molto forte di mangiare come gli altri. In Italia, per esempio, la cucina giapponese è arrivata dopo rispetto agli  Stati Uniti, ovviamente ibridata. Cioè, diciamo innanzitutto questo, che tutte le cucine che vengono ibridate e non arrivano mai integre nei paesi in cui vengono esportate. In ogni caso ci sono delle costanti che vengono mantenute, per esempio il sushi. La cucina giapponese in realtà non è fatta solo di crudo, di sushi e sashimi. Il sushi è quello che, per esempio, è arrivato in maniera più prorompente negli ultimi 15 anni in Italia e già dagli anni 70 negli Stati Uniti. La McDonaldizzazione è un altro processo brutto che ha stravolto il nostro sistema alimentare ed è legato alla globalizzazione. In Italia è arrivato più tardi rispetto ad altri ma ha cambiato totalmente il gusto delle nuove generazioni: sentirsi come gli altri, mangiare come gli altri, omologarsi anche nel modo di mangiare, sono tutti portati dalla globalizzazione.

Da cosa deve partire l’alimentazione per essere ecologica?

Prima di tutto bisogna conoscere i produttori e dirigerci verso un’alimentazione più vegetale possibile. Sappiamo tutti che la maggior parte delle emissioni globali di gas serra derivano dagli allevamenti intensivi. Un dato interessante è quello sui polli: i polli di allevamento rappresentano il 57% di tutte le specie di uccelli in massa, mentre gli uccelli selvatici rappresentano il 29% del totale, secondo The Biomass Distribution on Heart della TNS in una ricerca del 2021. Oltre ad andare verso un’alimentazione vegetale, è necessario cominciare a spostare l’attenzione sui produttori ancora prima degli chef famosi e stellati che probabilmente sono diventati interessanti agli occhi di tutti e possono anche essere un modello. Bisogna essere sicuri che quel prodotto che stiamo mangiando sia stagionale ma soprattutto autoctono. E’ inutile che continuiamo ad inserire delle varietà vegetali che non sono del territorio. Un’ altra causa della perdita di diversità degli habitat sono le varietà aliene. Quando s’inseriscono all’interno di un ecosistema, visto delle varietà che sono non adatte, in qualche modo vanno a creare uno scompenso talmente grande che probabilmente possono mettere in pericolo molte varietà invece locali, e questo sia per quanto riguarda il vegetale che l’animale (prodotti ittici compresi). Sarebbe importante poi sapere se i vegetali acquistati vengono da una monocultura o da una policultura.

Le attuali norme europee “Farm to fork” sono sufficienti a contrastare l’impatto sull’ambiente?

Sono un passo importante. Se veramente fossero applicate in maniera corretta e continuata. Non devono diventare un green-washing delle aziende perché se lo fai per un periodo breve, per fare una campagna pubblicitaria e poi si perde nel mare magnum delle proposte diventa inutile. È interessante notare come per esempio, parlando del mondo dei grandi e dell’alta cucina, Norber Niederkofler, dal 2010, abbia formulato un modo diverso di concepire “il lusso”. Ha crearlo la filosofia “Cook the Mountain”, dove si cerca in qualche modo di responsabilizzare, di educare al sano, pulito e locale, a partire proprio dalle figure di riferimento della ristorazione, che siano chef stellati o meno. Questo è interessante perché può essere applicato anche ad altri ambienti: Cook the lagoon, Cook the city…

L’alimentazione vegana spesso è portata avanti come l’unica alternativa. E’ realmente così?

È meglio un’alimentazione vegana che una supercarnivora: questo forse lo possiamo dire. Se però l’alimentazione vegana è totalmente inconsapevole e si consumano prodotti fuori stagione allora no. Se io decido che mangio una volta due volte a settimana la carne o le uova, ma so che vengono dalla mia zona in qualche modo e posso appurare che gli animali hanno vissuto in maniera degna, allora non è detto che sia meglio l’alimentazione totalmente vegana. Questi sono discorsi che facciamo da tempo. Bisogna avere una certa consapevolezza nel momento dell’acquisto e conoscere i produttori.

Quali sono le politiche da attuare in questo senso a livello locale?

E’ necessario integrare la visione. Sarebbe bello, per esempio, che i supermercati cominciassero a collaborare con i produttori locali, cosa che ancora io non vedo in Italia. Io sono bolognese ma abito in Sicilia e vedo che per esempio è un po’ più accessibile andare dai contadini o dai produttori al Sud. Anche a Bologna ci sono i mercati della terra e esistono tante realtà. Il problema è che non esiste un’integrazione tra la distribuzione mainstream e questi piccoli produttori. Esistono delle organizzazioni, ma ciò non è abbastanza. E capisco che molte persone facciano fatica ad accedere ai mercati dei produttori perché ci sono 2 o 3 volte a settimana e si preferisce riempire il carrello in maniera veloce, confusionaria, senza farsi troppe domande. Sarebbe necessario cominciare una collaborazione che veda una convergenza di intenti tra chi produce in maniera etica e la grande distribuzione.

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Classe 1995, nel 2018 ha conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università degli Studi di Napoli “Federico II". Subito dopo si è iscritto alla Magistrale in Relazioni Internazionali ed Analisi di Scenario che ha terminato a pieni voti nel 2020 discutendo una tesi sugli impatti dei cambiamenti climatici sulle regioni euromediterranee. È stato speaker radiofonico presso RadioPRIMARETE. Ha scritto sulla rivista di IsAg e su OpinioJuris, dove si è occupato principalmente di Nordafrica, Africa Subsahariana e green politics. Ha preso parte a diversi progetti indipendenti come RockWebzine, Scenari Urbani e Blasting News con brevi collaborazioni. Dopo il conseguimento con massimi voti della laurea magistrale in Scienze Politiche ha conseguito il Master in Marketing, Comunicazione & Made in Italy. Attualmente è studente della VI Edizione del Master in Giornalismo della LUMSA di Roma. È stato coordinatore del podcast “La Geopolitica in Tasca” su OpinioJuris-Law&Politics. È stagista presso “Il Messagero” da marzo 2021.

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