Le previsioni per il 2050
Le previsioni dicono che entro il 2050 oltre 5 miliardi di persone potrebbero avere problemi connessi alla carenza d’acqua, prodotta dai cambiamenti climatici ma anche da un aumento della domanda e dall’inquinamento delle forniture disponibili. Queste le indicazioni contenute nell’ultimo rapporto “Making Every Drop Count: An Agenda for Water Action”, prodotto dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale sullo stato delle acque nel mondo.
Serve un approccio verde
Ogni anno consumiamo circa 4600 chilometri cubici di acqua. Il 70% di questi consumi viene impiegato nell’agricoltura, il 20% nelle attività legate all’industria ed il restante 10% dalle famiglie. I dati dicono che nell’ultimo secolo la domanda di acqua è cresciuta di ben sei volte e la tendenza non sembra destinata a cambiare segno, alla luce dell’aumento crescente della popolazione mondiale. L’aumento della curva demografica comporterà infatti un parallelo aumento della domanda di acqua, cosa particolarmente vera nei paesi in via di sviluppo, dove peraltro ci si attende anche il maggior impatto dei cambiamenti climatici in atto. Tali cambiamenti portano siccità e conseguente degrado del suolo alimentando un circolo vizioso senza via d’uscita, una miscela potenzialmente esplosiva. Esistono città importanti e popolose, come ad esempio Brasilia con i suoi due milioni di abitanti, che sono costrette a chiudere completamente i rubinetti dell’acqua ogni cinque giorni. Il rapporto in questione evidenzia anche come la qualità dell’acqua sia sempre più un problema. A partire dagli anni Novanta l’inquinamento è peggiorato in quasi tutti i fiumi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina e si prevede un ulteriore deterioramento nei prossimi vent’anni. Il problema principale sono i deflussi agricoli di fertilizzanti ed altri prodotti chimici che caricano i rifornimenti di acqua dolce con sostanze nutritive che stimolano la crescita dei patogeni. Anche l’industria e le città giocano il loro ruolo in questo senso, visto che l’80% delle acque reflue industriali e municipali viene scaricato senza trattamento alcuno. Gli analisti della Banca Mondiale e dell’Onu sollecitano lo sviluppo e la diffusione di soluzioni verdi, soluzioni cioè basate sulla natura, sul suolo, sugli alberi, non sull’acciaio ed il cemento. Questo è particolarmente vero nel settore chiave dell’agricoltura. In questo ambito il rapporto suggerisce di pensare ad un diverso modo di coltivare, un metodo definito come “agricoltura di conservazione”. Si tratta di un approccio diverso, maggiormente basato sull’uso dell’acqua piovana invece che sull’irrigazione e su una migliore alternanza delle colture, funzionale a mantenere una maggiore copertura del suolo e a contenere il rischio di erosione e degrado che attualmente riguarda circa un terzo della terra del nostro pianeta. Tutto ciò fornirebbe migliori mezzi di sussistenza ai piccoli agricoltori, riducendone la povertà ed allontanando il concreto rischio di conflitti dovuti alla carenza d’acqua.
La situazione in Italia
E in Italia come siamo messi? In linea generale si può affermare che negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una riduzione di acqua disponibile di circa 20 miliardi di metri cubi, ossia una quantità pari alla capienza dell’intero lago di Como. Persino nel Nord Italia ricco d’acqua la prolungata siccità di alcuni anni fa aveva messo in crisi il sistema ecologico del fiume Ticino e le 7000 aziende agricole ad esso connesse. Le caratteristiche del nostro territorio, molto diverse da regione a regione, condizionano notevolmente la distribuzione e la disponibilità di acqua. Il Nord Italia può contare per la quasi totalità del suo fabbisogno delle acque di falda (circa per il 90%), mentre il Sud dipende in buona misura dalle acque accumulate negli invasi (per una percentuale che va dal 15 al 25%), utilizzate però per usi plurimi, per cui la scarsa piovosità mette in competizione diversi tipi di domanda per usi potabili e non potabili. C’è però anche un problema di pessima efficienza distributiva, fonti Istat infatti evidenziano che a fronte di un prelievo che per il 100% è fatto dall’ambiente, e che nel 2012 equivaleva a 34,2 miliardi di metri cubi, ben 7,6 miliardi di metri cubi equivalenti al 23% vengono dispersi. Appare dunque evidente che un primo intervento andrebbe fatto in questa direzione. La questione tuttavia si pone anche in Italia rispetto al deterioramento della qualità e della quantità dell’acqua presente nel sottosuolo. Infatti la ricarica dell’acquifero, ossia la quantità di acqua che si infiltra nel sottosuolo contribuendo alle risorse idriche disponibili, è ostacolata dalla crescente impermeabilizzazione del suolo e dal sovrasfruttamento delle falde idriche profonde, in assenza di una adeguata programmazione. Ecco quindi che le suddette falde hanno registrato abbassamenti fino a duecento metri, mentre al contempo si è riscontrato un assai pericoloso incremento dei valori di metalli pesanti e di sostanze chimiche altamente inquinanti, oltre che di cloruro e di sodio. Un altro dato fa riflettere e riguarda l’atteggiamento che abbiamo rispetto ad una risorsa così preziosa. Sempre l’Istat segnala, gli ultimi dati si riferiscono al 2015, che a fronte di una media nord europea di erogazione giornaliera procapite di acqua potabile per usi autorizzati di 190 litri, l’Italia è stabilmente attestata su una media di 220 litri. Se si considera che il quantitativo minimo vitale è stimato in 50 litri al giorno a testa, è legittimo fare una riflessione sull’evidente spreco di tale risorsa. In definitiva si può parlare di una rete di distribuzione non efficiente, di un progressivo deterioramento della qualità dell’acqua e di un suo consumo piuttosto allegro. Il quadro che ne emerge non è affatto rassicurante e merita urgentemente risposte di altro segno.