Poco più del 10% delle terre emerse è coltivabile
Il suolo è alla base di ogni attività agricola e quindi un fattore chiave per la nostra stessa sopravvivenza alimentare. Se un suolo viene reso improduttivo occorrono alcune centinaia d’anni perché possa ricostituirsi naturalmente riformando uno strato superficiale di una trentina di centimetri. Anche se il suolo ricopre vaste estensioni del nostro pianeta, in molte zone esso ha una capacità produttiva scarsa o nulla. Questo dipende dal fatto che alcuni terreni sono perennemente ghiacciati o eccessivamente aridi, oppure troppo ricchi di sali o paludosi. Poco più del 10% delle terre emerse è realisticamente coltivabile e purtroppo sottoposto ad uno sfruttamento intensivo al fine di dare nutrimento ai sette miliardi e più di persone che popolano il nostro pianeta. Una risorsa limitata dunque, oggetto di alterazioni intimamente connesse alle attività umane quando non ad eventi naturali. Basti pensare ad esempio all’uso sempre più massiccio di fertilizzanti e pesticidi, questi ultimi spesso altamente tossici per gli organismi responsabili della buona salute del terreno stesso.
L’impoverimento del terreno
Le piante che crescono spontaneamente in natura convivono con il suolo che le ospita in un equilibrio che si è consolidato nel tempo. Esse ricevono dallo strato di humus i sali minerali necessari per la loro crescita, contenenti elementi essenziali come l’azoto, il fosforo ed il potassio. Ora poiché nei campi coltivati le piante sono periodicamente raccolte, il terreno viene privato della materia organica fornita dalla decomposizione delle stesse piante e necessaria per la ricostituzione dello stesso humus. Da qui nasce la necessità di reintegrare queste sostanze nutritive con fertilizzanti e concimi, ma quali concimi? Un tempo si utilizzavano concimi naturali come il letame, miscuglio di paglia ed escrementi animali, o il guano, materiale solido derivato da escrementi di uccelli marini accumulatisi in grosse quantità, mentre oggi si preferiscono concimi chimici, prodotti industrialmente e facilmente utilizzabili, distinti in varie tipologie in base alla prevalenza di questo o quell’elemento. I concimi o fertilizzanti chimici vengono però spesso utilizzati nell’agricoltura intensiva in maniera spropositata rispetto alla reale necessità e questo produce un progressivo impoverimento del terreno. Allora si ricorre a dosi ancora più massicce di fertilizzanti e questo lo impoverisce ancora di più, in un circolo vizioso ed autodistruttivo. Peraltro i concimi chimici in eccesso defluiscono nelle acque attraverso la pioggia raggiungendo fiumi e laghi, ove determinano un’abnorme crescita di vegetazione acquatica, il cosiddetto fenomeno dell’eutrofizzazione. Per proteggere le colture da insetti nocivi ed erbe infestanti si rende invece necessario l’uso di pesticidi, sostanze tossiche spesso non biodegradabili che purtroppo spesso si accumulano nel suolo colpendo anche gli altri esseri viventi qui presenti. Anche i pesticidi finiscono nei fiumi intossicando pesci ed uccelli, fino ad arrivare all’uomo. Gli stessi prodotti ortofrutticoli possono presentarne tracce ragguardevoli, così come queste sostanze possono essere rinvenute anche nell’acqua potabile se le falde ne sono state inquinate a seguito del loro impiego.
Come difendere il suolo agricolo?
La difesa del suolo agricolo può essere attuata ricorrendo a tecniche di coltivazione che consentano un minore uso di fertilizzanti, ad esempio attraverso un maggiore uso di concime naturale come il letame oppure attraverso la rotazione delle colture. Si tratta di una metodica che evita di coltivare su un terreno sempre la stessa specie, ma propone ad esempio in una rotazione triennale di alternare frumento, mais e trifoglio. Quest’ultima pianta, una leguminosa, avendo altre necessità nutritive contribuisce, anche grazie ad una particolare caratteristica delle proprie radici, a ricostituire un deposito di sostanze azotate a cui attingere per le altre due colture. Anche l’uso di pesticidi andrebbe evidentemente contenuto, ricorrendo ad esempio alla cosiddetta lotta biologica, introducendo cioè nell’ambiente i nemici naturali degli insetti che si intende estirpare. C’è poi un’altra cattiva abitudine di cui si parla poco ed i cui danni alla struttura fisica e microbiologica del terreno sono difficilmente quantificabili, ossia l’aratura profonda. Questa pratica infatti finisce alla lunga per azzerare l’azione naturale di lombrichi ed organismi affini che contribuiscono indirettamente scavando cunicoli e gallerie ad un essenziale rimescolamento di argilla, più profonda, ed humus, più superficiale. Alcuni agricoltori più illuminati, applicando tecniche conservative di gestione del suolo, hanno visto aumentare anno dopo anno le loro produzioni ripristinando un adeguato livello di sostanza organica, anche senza l’aiuto di letamazioni. Essi hanno in primis applicato la tecnica di una copertura permanente del suolo, lasciando i residui colturali in superficie oppure interrandoli nei primi centimetri, cosa che garantisce nutrimento agli organismi che vivono nel terreno e di cui abbiamo finalmente capito l’estrema utilità. In definitiva un po’ di paglia in meno per qualche lombrico in più.