Giuseppe “Pippo” Onufrio, palermitano, è il direttore esecutivo di Greenpeace Italia. In un periodo in cui le competenze sembrano non contare nulla, per cui tutti parlano di tutto, ci tiene sempre a precisare che lui è Fisico di formazione. Del resto, il suo attivismo in Greenpeace e la sua passione lo hanno portato a diventare un punto di riferimento scientifico per gli ecologisti, grazie alla sua capacità di conciliare l’attività di ricercatore con l’impegno per il Pianeta a tempo pieno. In un periodo in cui gli approfondimenti si svolgono solo online, la sua voce è sempre chiara e forte per spiegare come stiano le cose in tema di inquinamento atmosferico, sostenibilità ambientale e, ovviamente, questione energetica. “Dobbiamo utilizzare il Recovery Plan per mettere in campo una serie di interventi infrastrutturali e una spinta alle rinnovabili. Il primo obiettivo è elettrificare i consumi, e questo in Italia è realizzabile fino a circa il 70% degli usi finali, ma questa elettricità dovrà essere rinnovabile, perché dobbiamo arrivare alla de-carbonizzazione completa. Altrimenti non rispetteremo gli accordi di Parigi.”
Ma qualcuno sostiene che anche il nucleare si possa annoverare tra le fonti rinnovabili…
Chiariamo una questione: l’energia nucleare non è rinnovabile, perché dipende da un minerale che deve essere estratto e quindi non può essere considerata tale. A volte qualcuno sostiene che sia a zero emissioni, ma non è così. Perché, se guardiamo a tutto il ciclo di vita della centrale nucleare, molti studi scientifici dimostrano che ha una componente carbonica non trascurabile.
E poi c’è il problema delle scorie, Greenpeace Italia ha espresso contrarietà al piano governativo per la ricerca di siti per lo smaltimento delle scorie nucleari. Perché?
Noi abbiamo questa eredità del vecchio nucleare, che è stato chiuso a seguito del referendum dell’87. Si tratta di un complesso di quasi 100.000 metri cubi di rifiuti tra quelli già esistenti, quelli che verranno dall’estero e quelli che risulteranno dallo smantellamento delle centrali. Noi abbiamo espresso la nostra contrarietà già nel 2017 in occasione del vecchio Piano, ma formalmente la nostra è una posizione che risale a più di 10 anni fa: siamo contrari a nuclearizzare nuovi siti.
Perché non c’è una soluzione alla gestione dei rifiuti e chi dice di averla dice il falso. Non c’è una soluzione per la gran parte della radioattività. Dei 100.000 metri cubi di rifiuti nucleari, 17.000 sono a media e alta attività, quelli più difficili da smaltire, mentre il rimanente volume rappresenta circa il 10% di radioattività. Per questi ultimi, bassa o molto bassa attività, la soluzione di un deposito ingegneristico, cioè costruito dall’uomo, non ci vede contrari. Questa è la soluzione meno peggiore, il male minore, ma siamo assolutamente contrari all’ospitare in questi depositi – ripeto creati ad hoc per la bassa o molto bassa attività che ha un tempo di decadimento di circa 300 anni – anche il resto dei rifiuti: quei 17.000 metri cubi a media e alta radioattività che, ricordo, detengono ben il 90% dell’inventario radioattivo che, secondo le linee guida internazionali, vanno isolate dalla biosfera per 10 mila anni. Quindi è logico che non si tratti più di deposito ingegneristico, perché non ci sono manufatti umani che durano così tanto ma si cerca una sistemazione in un sito geologico.
Ma in altre parti d’Europa il problema è stato affrontato e risolto, no?
In Europa ci sono alcuni depositi geologici di profondità in costruzione in Finlandia, Svezia e Francia; ma per capire se un sito funziona, dopo che questi rifiuti nucleari vi sono stati collocati, bisognerà aspettare molti anni. I rifiuti nucleari non sono materiale inerte, dobbiamo immaginarceli come una materia che va decadendo, i cui nuclei sono instabili, per cui molti elementi cambiano il loro stato fisico dal solido al gassoso ed è una materia anche calda che emette radiazioni. I problemi dei depositi geologici sono vari. Io consiglio la visione di un film molto bello, che è proprio sulla costruzione in Finlandia del deposito di Onkalo, che si chiama Into eternity, un docufilm in cui si raccolgono interviste agli esperti finlandesi che, peraltro, sono tra i migliori al mondo. La partita che dobbiamo affrontare per gestire questa lunga coda velenosa del nucleare – in Italia abbiamo quantità limitate, ci sono altri Paesi che hanno milioni di metri cubi e problemi molto più grandi – è sostanzialmente questa e qui concordiamo che la soluzione di un sito a livello europeo potrebbe essere il destino finale anche dei nostri rifiuti. Quando voi sentite dire che un sito ospiterà temporaneamente i rifiuti a media e alta attività, stiamo parlando di 50-70 anni, quindi si tratta di gestire in realtà una lunga transizione. Questo non significa affatto non far nulla, ma vogliamo capire che tipo di gestione alternativa dei siti esistenti si metta in campo, creando strutture di sicurezza temporanea, perché il 90% della radioattività comunque verrebbe ospitata in un deposito non adatto in attesa di una futura sistemazione “definitiva”. Per cui, se anche ci fosse la bacchetta magica e tu domani avessi un sito dove tutte le persone fossero contente di ospitare questi rifiuti, potrebbe essere una soluzione per il 10% della radioattività ma non per il restante 90% del problema. Per questo noi ci siamo opposti, anche se riconosciamo che per la bassa e molto bassa attività il deposito di superficie, il progetto che Sogen ha presentato, è la soluzione meno peggiore.
È chiaro che non c’è quindi una tecnologia umana sicura al 100% perché, come dicevi tu, il 90% della radioattività ha bisogno di un sito geologico. Per le altre scorie si tratta anche di rifiuti ospedalieri…
Sì, i rifiuti ospedalieri di solito sono a radioattività bassa o molto bassa, poi ci sono anche componenti ad attività più elevata come le sorgenti per le radioterapie. Certo, anche quelli vanno gestiti, ma una buona gestione anche di quei flussi non è che richieda necessariamente “un” deposito nazionale, c’è bisogno di intervenire a nostro avviso nei siti esistenti. La guida tecnica dell’ISPRA è stata pubblicata proprio sulle linee guida per la costruzione dei depositi temporanei e vorrei qui richiamare la situazione che si è verificata negli Stati Uniti che è paradigmatica.
Già, gli USA come hanno risolto il problema dei rifiuti radioattivi?
Non l’hanno ancora risolto. Hanno speso una decina di miliardi di dollari per fare il deposito geologico a Yucca Mountain, una storia lunghissima e alla fine il progetto è fallito. Il tentativo di fare un deposito nucleare dentro la montagna è naufragato, neanche Trump è riuscito a risuscitarlo, dopo che era già stato dichiarato fallito da Obama. Quello che è successo dopo la dichiarazione di Obama nel 2012, è stato che l’Alta Corte ha chiesto all’Agenzia di sicurezza nucleare americana che cosa fare con le barre di combustibile irraggiato. Gli Stati Uniti nel ’77 con Carter smisero di ritrattare il combustibile operazione finalizzato sostanzialmente all’estrazione di plutonio per usi militari: dunque, diversamente dalla situazione europea negli USA devono gestire le barre di combustibile irraggiato.
Per intenderci: le barre di combustibile irraggiato, di tutti i rifiuti nucleari sono la parte più complicata, la parte più radioattiva, quella proprio più difficile da gestire perché ci vuole molta cura. Gli americani li stoccano nelle piscine delle centrali e, in parte, a secco in contenitori che vengono posti generalmente subito sotto il livello del terreno, con sistemi di raffreddamento anche passivi. Questi contenitori sono progettati per essere cambiati ogni 20 anni. L’Autorità di sicurezza ha risposto all’Alta Corte che, in attesa di avere il deposito geologico, il combustibile irraggiato può essere gestito modificando la tecnologia dei contenitori, quindi si può fare una gestione secolare in situ. Così gli USA si stanno preparando a gestire le barre di combustibile non più per 20 anni, ma con orizzonte secolare. I rifiuti che abbiamo noi in confronto sono certo meno difficili da gestire. Nel caso americano la situazione appare meno grave semplicemente per il fatto che i siti che ospitano, quindi le centrali nucleari, sono ancora attivi, per cui la questione rifiuti radioattivi è coperta dalla gestione ordinaria delle centrali. Anche se, pure negli Stati Uniti, per alcune centrali è iniziato il processo di chiusura, mentre per altre l’autorizzazione a funzionare è stata prolungata, così come vuole fare la Francia con i 32 reattori più vecchi (ragion per cui abbiamo ottenuto dal Ministero Ambiente la richiesta di aprire la consultazione anche ai cittadini italiani: diverse centrali sono a meno di 200 km dal confine). In sostanza quello che voglio dire è che il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti, Paese nel quale la soluzione ancora non c’è. La storia del nucleare è un po’ tutta così, costellata da tanti “poi si vedrà”: una macchina funziona per 50 anni, e poi le scorie meno pericolose devono essere isolate per 3 secoli e quelle più pericolose per 10.000 anni. Questa è la situazione dei rifiuti nucleari ed è un tema che non è mai stato risolto.
Gli scienziati dicono che il nucleare sia costoso e presenti numerosi rischi. Ed è quello che stiamo dicendo oggi, giusto?
Sì, il nucleare è costoso e i reattori di terza generazione in occidente ancora non si riescono a costruire. Abbiamo il caso finlandese di Olkiluoto 3, il caso di Flamanville, reattori di tecnologia originariamente franco-tedesca ma poi la Siemens è uscita dal consorzio. I costi iniziali sono più che triplicati, rendendo non più concorrenziale il prezzo dell’energia prodotta. Così come è successo con l’Inghilterra, che ha promesso forti incentivi statali al nucleare, mettendo in cantiere la centrale di Hinkley Point con due reattori EPR. Il governo britannico, infatti, ha dovuto convincere l’azienda statale francese che lo costruirà, offrendo un prezzo indicizzato che oggi corrisponde grosso modo a 105 euro a MWh (megawatt/ora). Dobbiamo pensare che nella Borsa elettrica italiana il prezzo medio oscilla tra i 50 e i 60 €/ MWh. In Spagna l’ultima asta per il solare si è chiusa a meno di 25 di media e in Portogallo – quindi parliamo di aree con insolazione non diversa dalla nostra – un impianto solare a scala industriale ha sottoscritto un contratto a lungo termine pochi mesi fa a 11 €/MWh.
Sui rischi legati al nucleare va ricordato che è costituito dalla moltiplicazione di due fattori: la probabilità che qualcosa accada e l’entità delle conseguenze. Quindi anche se la probabilità di un evento incidentale grave è bassa (ma abbiamo visto non così bassa come si propagandava), l’entità delle conseguenze può essere enorme e dunque il rischio – moltiplicando i due fattori – può essere anche importante. Guardiamo a Fukushima: sono stati evacuati tutti, riducendo l’esposizione alle radiazioni, ma quella è un’area che come Chernobyl rimarrà inabitabile per 200-300 anni.
Qualcuno sostiene che non si possono sostituire le Centrali a combustibile fossile o nucleare perché poi, con tutte le energie rinnovabili che abbiamo, non si possono ad esempio far lavorare le aziende che hanno bisogno di energia di notte. Come si risponde a questi dubbi?
Intanto bisogna dire che non tutte le rinnovabili sono intermittenti: l’idroelettrico, le biomasse o la geotermia ad esempio non lo sono. Il concetto di carico di base è un concetto classico, però in un mondo che va verso le rinnovabili sarà progressivamente superato. Quindi fermo restando che anche in uno scenario 100% rinnovabili non è un 100% di fonti intermittenti, si tratta di modificare il sistema di trasmissione e distribuzione. La settimana scorsa è stata messa in costruzione in Florida quella che al momento sarà la più grande batteria industriale: 409 megawatt, che può funzionare a pieno regime per due ore e ci sono già in fase di sviluppo batterie che possono funzionare a pieno regime 4 ore e si studiano altre con una ancora maggiore capacità. La cosa interessante è che negli Stati Uniti hanno deciso questi investimento sotto Trump, quindi sotto un’amministrazione che usciva da Parigi. E in un contesto di mercato in cui il gas costa all’industria meno della metà di quanto costa qui. Significa che queste aziende private che operano in un mercato liberalizzato hanno scelto questa strada invece di fare il turbogas o i cicli combinati e cito i turbogas perché si vogliono fare anche in Italia, per esempio a Civitavecchia. Per ovviare al fatto che quando cala il sole ci siano delle ore di buco, vorrebbero mettere i turbogas da far funzionare fino a che i consumi non scendono ai livelli serali e notturni.
In sostanza la rete elettrica del futuro avrà molti sistemi di accumulo sparsi e con varie funzioni – sia di dare elettricità che di mantenere la frequenza di rete – e che “verranno chiamati” a operare grazie alla crescente digitalizzazione del sistema. Questo richiede ovviamente una sovracapacità rinnovabile (che già abbiamo nelle ore attorno a mezzogiorno) per avere energia in eccesso da usare per caricare i sistemi di accumulo (batterie ma anche gli attuali sistemi di pompaggio idroelettrico).
Quello che voglio dire è che il mondo sta cambiando rapidamente e i costi di queste tecnologie sono in rapida discesa.
E a Fukushima c’è poi la questione delle acque radioattive…
Sì, ma a parte questo c’è la questione che il combustibile fuso è ancora lì e al momento il piano per recuperarlo non c’è e si tratta di un impianto vicino al mare. Non è come quello di Chernobyl per cui è stato possibile fare un sarcofago (e rifarlo perché il primo rischia di crollare), Fukushima è sulla linea di costa, c’è il mare. Il problema dell’acqua contaminata è che il combustibile fuso bisogna continuamente raffreddarlo, quindi si butta acqua dentro, si tira fuori acqua che è contaminata e che poi deve essere trattata. Ma i sistemi di trattamento adottati dalla Tepco e commissionati all’industria giapponese, che non aveva competenze su queste tecnologie, si sono rivelati insufficienti. Tra l’altro ilo sxcorso agosto la stessa Tepco ha dichiarato c’è stata una contaminazione di carbonio-14. Quindi non è solo il trizio in quelle quantità, o lo stronzio -90 ma anche il carbonio -14 che dimezza dopo 5.000 anni. Quindi il punto è: oltre il 70% dell’acqua andrebbe ritrattato per togliere questi elementi perché, se li scaricano al mare, questa roba entra nella catena trofica, nella catena alimentare. Tenendo conto che il consumo medio di pesce e prodotti ittici di un giapponese è 8-10 volte il nostro, ne deriva che quella è una via importante per contaminare la popolazione e bisogna stare molto attenti. Per non parlare delle alghe, dato che alcune catturano i radionuclidi e li concentrano. In sostanza la nostra posizione in quel caso è: l’acqua va stoccata e bisogna depurarla con le tecnologie adeguate, e il tentativo invece di scaricarla a mare è solo legato ai costi che una operazione corretta di trattamento richiederebbe.
Articolo tratto dalla rivista trimestrale cartacea Ecologica – n.1 Marzo 2021