Meno scarti per un’economia circolare
La crisi dovuta alla diffusione del virus Sars-Cov2 e alla malattia ad esso collegata, cha abbiamo imparato a chiamare Covid19 ha messo in evidenza molte cose che non funzionano nella nostra società odierna. Uno dei molti elementi critici emersi, soprattutto in Italia, ha riguardato la gestione dei rifiuti. Non che ci siano state emergenze conclamate, ma si sono amplificate differenze territoriali impiantistiche e ancor più sono emerse, a mio avviso, carenze culturali. Quando parlo di carenze culturali intendo sottolineare come le dichiarazioni che si sono succedute hanno ancora una volta posto l’accento su quella che Donella Meadows chiamava “sensibilità del pozzo”, ovvero sulla fine della filiera e non sulla necessità di agire a monte verso una “sensibilità della sorgente”. Non solo.
Questo modo di pensare, questo approccio culturale ha dimostrato come siamo ancora intimamente legati ad una economia lineare basata su estrazione di risorse produzione di beni consumo e smaltimento. L’economia circolare, al di là di milioni di pagine scritte, ore di convegni, articoli, manifesti e proclami stenta a prendere piede, perché ancora troppo giovane per poter competere con decenni di cultura economica lineare. Il necessario cambio di paradigma deve portarci a invocare la necessità di un piano di prevenzione che ci accompagni a ridurre la produzione di scarti e non invece a chiedere la costruzione di nuovi inceneritori e, attenzione, questo vale anche per gli impianti di riciclo.
Siamo consapevoli che c’è una carenza strutturale e dunque servono impianti, così come sappiamo che in Italia c’è una cattiva distribuzione della tecnologia con il sud del Paese che paga un forte dazio, ancora una volta, al nord, ma non può e non deve essere solo questo l’orizzonte dell’impegno intellettuale ed economico per pianificare una gestione sostenibile degli scarti.
E le mascherine?
Con l’esplosione della pandemia una delle prime emergenze fu la carenza dei dispositivi di sicurezza individuale, ed in particolare della mancanza di mascherine. In breve, siamo diventati tutti esperti delle diverse tipologie di mascherine e della loro capacità filtrante.
Quando finalmente il Paese si è dotato di quantità sufficienti di dispositivi, non senza scandali anche per questi approvvigionamenti, secondo un mal costume fin troppo italico, è esploso un altro problema: l’abbandono delle mascherine nell’ambiente. Si sono dunque avvicendate numerose campagne di sensibilizzazione sulla pericolosità dell’abbandono, dall’accumulo nei corpi idrici come fiumi, laghi e mari e conseguente rischio per la fauna marina alla ulteriore diffusione del virus nel caso di abbandono da parte di soggetti contagiati dal virus Sars-Cov2. Ci si è anche interrogati su quale tipo di rifiuto si trattasse, senza entrare nel merito delle numerose pubblicazioni tra esperti del settore tese a chiarire se fosse un Codice 15 02 -ovvero assorbenti e materiali filtranti- o piuttosto 18 01 -ovvero rifiuti potenzialmente infettivi- e sono passati numerosi mesi per capire come andassero raccolti e smaltiti. Nello stesso periodo si sono scatenate dichiarazioni allarmanti rispetto ad una possibile emergenza derivante dalla produzione di nuovi rifiuti, come appunto le mascherine, con dati che andavano da qualche decina di migliaia di tonnellate fino a 400mila tonnellate all’anno. Ovviamente per scongiurare l’emergenza si sono moltiplicate le richieste di nuovi impianti di incenerimento. Qualche azienda ha incominciato a proporre mascherine biodegradabili-compostabili o monopolimero, lasciando intravedere possibili filiere di raccolta separata e successivo avvio a riciclo.
Inizialmente si sono anche affacciate timidamente soluzioni che puntavano al riuso, ma additate come meno performanti delle soluzioni usa-e-getta, tanto da essere screditate.
Fortunatamente l’Organizzazione Mondiale della Sanità prima e l’Istituto Superiore di Sanità poi hanno parzialmente corretto l’informazione riabilitando le cosiddette mascherine di comunità. Solo dopo oltre 10 mesi, hanno incominciato ad essere vendute mascherine lavabili con filtri certificati: mi limito qui a segnalare il progetto della cooperativa Eta Beta di Bologna sviluppato con il supporto del comitato scientifico Zero Waste Italy. Questo esempio rappresenta in modo plastico la fatica che facciamo per affrontare la tematica rifiuti secondo la priorità gerarchica dettata dalla norma e dal buon senso. Val forse la pena ricordare che non esiste un’unica soluzione, ma che l’approccio corretto prevede un impegno nell’ecoprogettazione o ecodesign che punti alla prevenzione prima, che comprende il riuso, e al recupero di materia attraverso il riciclo poi e, solo se proprio non esistono alternative, si può pensare a incenerimento e discarica.
Obiettivo prevenzione
Partendo dunque dall’esempio delle mascherine abbiamo una grande opportunità offertaci anche dal nuovo quadro normativo, delineato dal recepimento del pacchetto di norme europee per l’economia circolare, e dal Next Generation EU Fund. La nuova norma -per gli appassionati di numeri e leggi stiamo parlando del decreto legislativo numero 116 del 3 settembre 2020, entrato in vigore il 26 settembre, in attuazione della direttiva (UE) 2018/851 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti, della direttiva (UE) 2018/852 che modifica la direttiva 1994/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio- insiste molto sulla prevenzione, tanto da nominarla esplicitamente ben 23 volte. La prevenzione è uno degli obiettivi cui devono tendere i produttori attraverso la responsabilità estesa (art. 178) come si legge all’articolo 180 fortemente modificato (ma anche lo Stato deve dotarsi di un piano nazionale). Rimandando i più appassionati alla lettura integrale dell’articolo mi preme mettere in evidenza come, con la nuova legge, il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti fissa idonei indicatori e obiettivi qualitativi e quantitativi per la valutazione dell’attuazione delle misure di prevenzione dei rifiuti in esso stabilite. Le misure proposte devono sostenere la progettazione, la fabbricazione e l’uso di prodotti durevoli, in termini di durata di vita e di assenza di obsolescenza programmata, scomponibili, riparabili, riutilizzabili; devono incoraggiare il riutilizzo di prodotti e la creazione di sistemi che promuovono attività di riparazione e di riutilizzo, in particolare per le apparecchiature elettriche ed elettroniche, i tessili e i mobili, nonché imballaggi e materiali e prodotti da costruzione. Il Piano deve inoltre prevedere che siano ridotti i rifiuti non riutilizzabili e non riciclabili e limitare al massimo la dispersione dei rifiuti nell’ambiente anche attraverso idonee campagne di informazione e sensibilizzazione.
Come pianificare
Un’adeguata adozione di un Piano efficace a mio avviso potrebbe permettere di contenere la produzione dei rifiuti urbani di un buon 20%, come già ampiamente dimostrato da numerose realtà territoriali italiane, il che significherebbe per l’Italia ridurre di sei milioni di tonnellate la produzione complessiva. A quel punto, e solo sulla base di questi dati, si può pianificare la dotazione impiantistica. Nell’ambito degli impianti prima ancora della tecnologia va pianificata la distribuzione territoriale secondo il principio, troppo spesso dimenticato, di prossimità. Il trattare i materiali vicino ai luoghi di produzione porterà con sé due conseguenze positive: un dimensionamento congruo alle quantità prodotte e una drastica riduzione dei trasporti con conseguente riduzione delle emissioni e dei costi.
Questa modalità di procedere consente anche di coinvolgere le popolazioni nella localizzazione di dettaglio; localizzazione che porta con sé anche la scelta tecnologica più appropriata. Ad esempio, un impianto di compostaggio anaerobico con produzione di biogas a sua volta raffinato in biometano, CO2 e altre componenti, ha senso vicino ad aree produttive dove i sottoprodotti possono essere consumati, mentre in aree rurali si potrà preferire un impianto di taglia più piccola, in quanto sarà maggiormente probabile il ricorso al compostaggio domestico, e il compost prodotto potrà essere utilizzato direttamente in agricoltura. La crisi pandemica ha però messo in risalto anche nuove straordinarie capacità di riciclo come l’utilizzo del legno per componenti aerospaziali, l’utilizzo di plastiche eterogenee per nuovi stampaggi o filati più resistenti delle fibre vergini.
Le priorità
La premessa è che il Piano Nazionale di Prevenzione Rifiuti dovrà dare la priorità a quelle filiere che oggi soffrono una carenza di impianti e una concentrazione geografica in alcune aree del Paese. Per quantità, dunque, il primo intervento deve riguardare gli impianti di compostaggio, soprattutto nel centro sud. Una recente indagine di Utilitalia stima in oltre tre milioni di tonnellate la necessità di impianti di compostaggio nel centro sud, di cui quasi seicento mila tonnellate nella sola Sicilia. Accanto alla frazione organica, la plastica necessita di un intervento, visto l’aggravarsi della situazione gestionale a seguito della chiusura delle frontiere della Cina prima e di altri Paesi verso i quali esportavamo i nostri scarti. Ancora una volta vale la pena ribadire come il primo intervento debba concentrarsi sulla prevenzione che ne limiti la produzione complessiva e punti decisamente sull’ecodesign, in particolare sulla produzione di beni realizzati con monopolimeri o polimeri facilmente separabili e riciclabili. In questo quadro anche le plastiche biodegradabili e compostabili rappresentano una sfida importante. Gli sforzi impiantistici dovranno concentrarsi sulla capacità di selezione e successivo avvio a riciclo.
Un terzo asse di intervento riguarda le apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Se da un lato dobbiamo essere consapevoli che il superamento dell’obsolescenza programmata, la riparabilità e la smontabilità, pur essendo obiettivi ribaditi più volte dal quadro normativo, rispondono a logiche produttive e di mercato fortemente globalizzate e quindi più difficilmente controllabili in via diretta, dall’altro dobbiamo attrezzare il Paese con centri di smontaggio che puntino al riciclo in filiere nazionali o comunque europee così da recuperare plastiche pregiate, elementi preziosi, terre rare. Infine c’è l’assoluta necessità di intervenire sulla filiera dei tessili, oggi non sempre trasparente nella sua gestione, come ampiamente dimostrato dalla Commissione Interparlamentare d’inchiesta sul traffico illecito dei rifiuti, e fortemente dipendente dall’esportazione verso Paesi extra UE come il Pakistan, la Tunisia, l’Egitto, il Bangladesh, solo per citarne alcuni.
Anche per questa filiera occorre introdurre una responsabilità del produttore sull’immesso al consumo, con particolare riguardo alla fast fashion e occorre attrezzare i territori con impiantistica dedicata alla selezione e al successivo avvio al riciclo, creando le occasioni di filiera con adeguate simbiosi industriali.
Articolo tratto dalla rivista trimestrale cartacea Ecologica – n.1 Marzo 2021