Il 2020 è stato un anno che per molte tragiche vicende passerà alla storia. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres parlando alla Columbia University, ha fatto un bilancio di fine dell’anno sullo stato del clima a dicembre 2020. Citando le sue parole: “L’umanità sta facendo la guerra alla natura. Questo è suicida”. Potrebbe sembrare retorica da giorno del giudizio, ma suicida è probabilmente una parola appropriata se analizziamo i dati pubblicati da una serie di report di fine anno e da articoli scientifici apparsi tra dicembre 2020 e gennaio 2021. Tutti questi studi dipingono una situazione anche più preoccupante di ciò che fino ad oggi i governi e i mezzi di comunicazione hanno riportato. In alcuni studi, accanto a continue chiamate all’azione, compaiono anche immagini concrete di un “futuro terrificante”. Cosa è successo nel 2020, oltre alla pandemia, per giustificare tali definizioni? Per capire meglio il mondo che abbiamo lasciato alle spalle nel 2020, cominciamo a volgere il nostro sguardo verso la parte più settentrionale del pianeta.
Un Artico con meno ghiaccio e il disgelo del permafrost
Una delle più classiche immagini che sono usate per raccontare il cambiamento climatico è quella del “solito” orso polare che cerca in qualche modo di stare in piedi su un piccolo pezzo di ghiaccio. Forse ne siamo talmente abituati che non ci rendiamo conto di quanto tragica questa immagine sia. A causa del cambiamento climatico, infatti, la temperatura nell’Artico sta aumentando a ritmi ancora superiori a quelli globali (si tratta della cosiddetta “amplificazione artica”), e questo fenomeno ha un effetto devastante sulla formazione del ghiaccio artico. L’estate passata, mentre in Italia e in tutta Europa si discuteva di come allentare le misure anti-COVID e di come aiutare l’economia a riprendersi, l’Artico sperimentava la seconda più bassa estensione del ghiaccio marino mai registrata (seconda solo a quella registrata nel 2012). È questo un dato molto allarmante, perché se la riduzione dell’estensione del ghiaccio è una delle conseguenze più evidenti del cambiamento climatico, è anche un fenomeno che amplifica il riscaldamento globale stesso. Semplificando molto, dal momento che l’acqua oceanica è più scura del ghiaccio, la superficie dell’oceano priva di ghiaccio assorbe una maggior parte dell’energia che arriva coi raggi del sole, e contribuisce in tal modo a sua volta al riscaldamento dell’acqua e del clima globale. Se poi spostiamo lo sguardo sui territori che circondano l’Oceano Artico, la situazione non è affatto più rosea. Lo scongelamento del permafrost (il terreno perennemente gelato di vastissime zone della Siberia, del Canada, dell’Alaska e della penisola Scandinava) è da decenni indicato dai climatologi come uno dei potenziali “tipping points” del sistema climatico, a causa dell’elevatissima quantità di carbonio presente nel suolo artico. Se il permafrost si disgela a causa dell’aumento delle temperature, infatti, il carbonio contenuto nel suolo può essere rilasciato in atmosfera instaurando un altro di quei “feedback positivi” che amplificano il riscaldamento globale. Il 2020 è stato l’anno più caldo di sempre, con temperature record anche nella (solitamente) fredda Siberia: il disgelo di vastissime aree nelle regioni artiche e il rilascio di grandi quantità del carbonio finora intrappolato nel permafrost non appare più così irrealistico.
Gli oceani si stanno riscaldando a ritmi mai visti
Nemmeno lo stato globale degli oceani, purtroppo, ci dà molti spunti di ottimismo. Proviamo infatti a fare un immaginario “zoom out” dall’Artico e diamo un’occhiata agli oceani globali nel loro insieme. Un recente studio di Liijing Chen e colleghi apparso in Advances in Atmospheric Sciences mostra come il trend del riscaldamento degli oceani abbia raggiunto nel 2020 livelli mai osservati prima, con gravissime conseguenze per la vita marina e con enormi potenziali impatti sul clima globale. Una temperatura superficiale degli oceani più alta, infatti, influenza la violenza di molti eventi atmosferici, come gli uragani. In un altro studio apparso a fine 2020 su PNAS James Kossin e colleghi hanno messo in luce come l’intensità massima dei cicloni tropicali in media sia aumentata negli ultimi 30 anni, in diretta correlazione con l’aumento della temperatura dei mari. Nel solo Oceano Atlantico nel 2020 si è registrato il numero più alto mai osservato di tempeste intensificatesi al punto da essere “battezzate”: 30. Di queste 30, 18 si sono poi trasformate in uragani veri e propri, come gli infausti Eta e Iota che nel novembre 2020 si sono abbattuti in rapidissima successione sul Centroamerica causando enormi danni e lasciando centinaia di migliaia di persone sfollate e in parte ancora in attesa di aiuti umanitari in Nicaragua, Honduras e Guatemala. Michael Mann, professore alla Penn State University, ha dichiarato a The Guardian a questo proposito: “Il fatto che gli oceani abbiano raggiunto un nuovo record di riscaldamento nel 2020, nonostante una diminuzione senza precedenti nelle emissioni globali di carbonio [a causa della pandemia, NdA] rende evidente il fatto che il pianeta continuerà a riscaldarsi fino a quando continueremo a emettere carbonio nell’atmosfera”.
La pandemia non ha frenato la deforestazione
Non vi paiono notizie abbastanza allarmanti? Possiamo allora, nel nostro viaggio immaginario, spostarci sulla terraferma e dare un’occhiata allo stato delle foreste globali. Secondo un report del WWF pubblicato quest’anno, tra il 2004 e il 2017 le foreste tropicali e subtropicali (importantissime, tra l’altro, perché veri e propri hotspot per la biodiversità) hanno perso una superficie pari a quella della California, con la maggior parte di perdite concentrate nell’Amazzonia Brasiliana (15.5 milioni di ettari) e con il Borneo distante secondo (5.8 milioni di ettari). Il report, in linea con ricerche precedenti, identifica la deforestazione finalizzata alla conversione delle foreste in terreni agricoli a larga scala come il motore principale di questo fenomeno, principalmente per le attività legate all’allevamento di bovini. A causa dell’attuale pandemia, inoltre, gli sforzi dei conservazionisti e degli ambientalisti sono stati globalmente frustrati o resi molto più difficoltosi. Molte ONG hanno messo in pausa i progetti nel campo, e modelli di sussistenza di popolazioni indigene e comunità locali basati sull’ecoturismo e sulla ricerca sono stati colpiti duramente dalle restrizioni per combattere la pandemia. Nel frattempo, secondo dati forniti dal governo brasiliano, l’Amazzonia ha subito nel solo anno 2019-2020 la deforestazione di un’area pari a 1.1 milioni di ettari, il dato più alto da 12 anni a questa parte. Governo brasiliano che, come quello indonesiano, ha deregolamentato alcune attività anche in aree protette, causando un aumento incontrollato del disboscamento illegale, ma anche di estrazione mineraria illegale e altre attività estremamente dannose per le foreste tropicali. Globalmente poi, il report della FAO “Global Forest Resources Assessment 2020” evidenzia come il mondo abbia perso un’area pari all’intera Libia in superfici boschive rispetto al 1990 (oltre 178 milioni di ettari). Se il rateo di deforestazione tra il 2015 e il 2020 è (di poco) minore a quello del quinquennio precedente, stiamo comunque parlando di perdite nell’ordine di quasi 10 milioni di ettari all’anno.
La concentrazione di CO2 in atmosfera continua a salire
Veniamo infine all’elefante nella stanza: come sta andando la concentrazione di gas serra in atmosfera dopo quest’anno di pandemia, in cui abbiamo potuto osservare una sostanziale diminuzione nella quantità di carbonio emessa rispetto agli anni precedenti? In realtà, una riduzione nelle emissioni vuole solamente dire che abbiamo per un anno diminuito la velocità a cui la concentrazione di gas serra in atmosfera sta inesorabilmente aumentando. Il 2020 è stato dunque, come da aspettative, un nuovo anno record: le concentrazioni di CO2 in atmosfera hanno infatti raggiunto a maggio 2020 la più alta quota mai registrata, 417ppm (parti per milione). La Terra non vedeva livelli così alti di CO2 in atmosfera da diversi milioni di anni. A dicembre 2020 è anche stato pubblicato il Global Carbon Budget 2020, in cui gli autori riportano come la drastica diminuzione di emissioni nel settore dei trasporti terrestri abbia guidato la decrescita in emissioni di gas serra del 2020 rispetto al 2019. Le emissioni da traffico aereo, se pure diminuite del 75% rispetto all’anno precedente, hanno avuto un effetto più basso per la loro minore importanza relativa sul budget globale del carbonio. Per rendere la situazione ancora più allarmante, un altro studio pubblicato su Science da Songhan Wang e colleghi (tra cui l’italiano Alessandro Cescatti, del Joint Research Centre della Commissione Europea) sempre a dicembre 2020 evidenzia come la fotosintesi delle piante sia meno efficiente oggi rispetto agli anni Ottanta. Gli autori spiegano che questo fenomeno rende la vegetazione globale meno efficiente nell’immagazzinare anidride carbonica dall’atmosfera, e implica un possibile indebolimento nel ruolo stabilizzatore che la vegetazione e le foreste hanno nel ciclo del carbonio globale.
Quale futuro abbiamo davanti?
Quindi che futuro ci aspetta nel 2021 e oltre? Secondo Corey Bradshaw e altri scienziati autori di un allarmante report apparso il 13 gennaio in Frontiers in Conservation Science si tratta di un futuro “ghastly”, terrificante. Il futuro dipinto dallo studio è in realtà estremamente concreto e ad oggi sembra agli autori quasi inevitabile. Sempre secondo gli autori la causa è l’ignoranza e l’inazione dell’umanità e dei suoi leader di fronte alla più grande crisi ambientale globale mai affrontata. L’articolo prende in esame oltre 150 studi precedenti per identificare le maggiori sfide ambientali da affrontare imperativamente se vogliamo evitare questo tipo di futuro. Le condizioni ambientali che ci aspettano nei prossimi anni e decenni saranno molto peggiori e molto più pericolose di quanto si pensa comunemente. Infatti, discutono Bradshaw e colleghi, la scala delle minacce a tutte le forme di vita della Terra (compresi gli umani stessi, spesso causa principale di queste minacce) è talmente grande che nemmeno molti esperti che lavorano nel settore sembrano capaci di comprenderla completamente. In particolare, le minacce poste alla biodiversità dalla sesta estinzione di massa che stiamo causando sono per certi versi meno evidenti al grande pubblico e alla politica rispetto a quelle direttamente derivate dalla crisi climatica. Eppure, nemmeno in quest’ultimo caso le evidenze schiaccianti del pericolo imminente sembrano scuoterci per agire e invertire la rotta. La sfida posta dalla possibilità stessa della creazione di un futuro sostenibile, continua lo studio, è enorme. L’aumento futuro di minacce alla salute umana (pandemie), al benessere e alla ricchezza di intere popolazioni (migrazioni forzate di massa e conflitti a grande scala per accaparrarsi risorse in continua diminuzione) minerà infatti la capacità delle stesse popolazioni di rispondere in modo adeguato alle sfide poste dal cambiamento climatico e dalla diminuzione dei servizi ecosistemici da cui la popolazione umana è direttamente dipendente. L’articolo, in termini molto onesti e aperti, evidenzia poi la tragica inefficienza e insufficienza delle azioni (sia quelle attuali sia quelle pianificate) messe in campo per cambiare la situazione e combattere la distruzione del pianeta e delle sue risorse. Lo studio è stato pubblicato dopo che nel 2020 il mondo e i suoi leader non sono riusciti a raggiungere nemmeno uno dei target sulla biodiversità stabiliti dai leader mondiali ad Aichi nel 2010. Bradshaw e colleghi, infine, concludono che il loro report “non è una chiamata ad arrendersi, noi miriamo a fornire ai leader una realistica doccia fredda sullo stato del pianeta, che è essenziale per pianificare come evitare un futuro terrificante”.
Marco Lambertini, direttore generale di WWF International, nel preambolo del già citato report sulla deforestazione globale dice: “Sappiamo cosa deve essere fatto: proteggere le aree critiche per la biodiversità e gestire le foreste in modo sostenibile, fermare la deforestazione e ripristinare le foreste, riconoscere e proteggere I diritti di possesso delle popolazioni indigene e delle comunità locali, supportare le popolazioni locali nella costruzione di sistemi di sussistenza e sviluppo sostenibile, […], e trasformare le nostre economie, i nostri sistemi alimentari ed economici per tenere conto del valore della natura”. Il 14 gennaio, Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), in una conferenza stampa ha giustamente detto: “Non c’è un vaccino per il cambiamento climatico”. Esistono solo le durissime e sempre più necessarie scelte che dobbiamo fare se vogliamo evitare il “futuro terrificante” predetto da Bradshaw e colleghi.