Covid Bergamo: i ritardi e le menzogne nei giorni della tragedia
Men in Yellow Hazmat Suit and Breath Protection Mask Loosing His Mind. Devastated Healthcare Worker Concept. Covid-19 Pandemic Mental Issues Theme.

Sono passati quasi dieci mesi da quando l’incubo del Coronavirus si è affacciato nel nostro Paese. Dieci mesi in cui abbiamo imparato a fare i conti con qualcosa che non avremmo mai immaginato di dover affrontare, dieci mesi in cui abbiamo fatto il conto dei morti, spesso dimenticando che quei morti avevano un nome, una famiglia, una storia.

È il 20 Febbraio quando la Dott.ssa Annalisa Malara, a Codogno, una piccola cittadina del Lodigiano all’epoca sconosciuta ai più, decide di ignorare il protocollo diffuso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e di sottoporre a tampone un paziente di 38 anni che, pur non avendo avuto alcun contatto con la Cina, risultava essere affetto da una grave forma di polmonite che non rispondeva a nessuna delle cure abitualmente impiegate. Il paziente risulta positivo, la notizia corre in tutta Italia e, nel giro di tre giorni, a seguito di una riunione tra la Protezione Civile, il Premier Giuseppe Conte e il Ministro della Salute, Roberto Speranza, arriva la decisione di isolare l’area.

Tuttavia, la tempestività degli interventi, come è tristemente noto, non ha riguardato in egual misura un’altra zona che, nel giro di pochissimo tempo, si è trasformata in uno dei centri maggiormente colpiti in Italia, divenendo nota anche alle cronache internazionali: la provincia di Bergamo.

In una toccante inchiesta, anche il New York Times si sofferma ad analizzare fatti e decisioni prese in quei fatidici giorni, per capire come sia stato possibile che una fiorente provincia con poco più di un milione di abitanti tra Febbraio e Marzo si sia in breve trasformata in uno dei centri occidentali più colpiti dal Coronavirus.

La storia ha inizio all’Ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, siamo alla metà di Febbraio e l’ottantatreenne Franco Orlandi si presenta al pronto soccorso dell’ospedale con febbre e tosse. In quel momento in Italia non erano ancora stati accertati casi e l’ospedale della bergamasca si limita a rispettare quanto definito dall’OMS: i tamponi vanno effettuati solo a coloro che hanno avuto una qualche forma di connessione con la Cina e non è il caso di Franco Orlandi. Il paziente viene dunque dimesso, con enorme perplessità della Dott.ssa Monica Avogadri, anestesista al Pesenti Fenaroli.

Passano appena una manciata di giorni e arriva la notizia del primo paziente Covid in Italia. La Dott.ssa Avogadri – anche lei ammalata – insiste affinché vengano effettuati quanto prima i tamponi sull’Orlandi; nel frattempo, mentre un uomo con sintomi sospetti arriva al pronto soccorso, alcuni pazienti che si trovavano sullo stesso piano di Franco Orlandi iniziano a mostrare segni di peggioramento. I dirigenti dell’ospedale si convincono della necessità di effettuare i tamponi: tra il 23 e il 24 Febbraio l’uomo arrivato al pronto soccorso, il compagno di stanza di Orlandi e lo stesso Orlandi risultano positivi.

Quando il 23 Febbraio il Direttore del Pesenti Fenaroli, il Dottor Giuseppe Marzulli, riceve i primi risultati capisce immediatamente la gravità della situazione: il suo ospedale si era trasformato in un focolaio. La decisione di chiudere le porte è immediata, ma dura ben poco; appena qualche ora dopo, infatti, la Regione Lombardia, in accordo con l’Asst Bergamo est, impone la riapertura. Le conseguenze sono quelle che purtroppo conosciamo bene: il 26 Febbraio i casi accertati a Bergamo salgono a 20 e diventano 103 appena due giorni dopo. Gli ospedali si riempiono di paziente con sintomi, i tamponi scarseggiano, gli asintomatici si muovono liberamente all’interno della provincia, ma il 26 Febbraio il Comitato Tecnico Scientifico, riunito a Roma, ribadisce l’assenza di condizioni tali da ipotizzare un lockdown nella bergamasca sulla falsariga di quello della lodigiana.

Passeranno giorni prima che si arrivi, l’8 Marzo, al lockdown per l’intera regione Lombardia. Giorni cruciali, in cui tutti, visto il rapido precipitare degli eventi, si aspettavano che anche l’area di Bergamo venisse dichiarata zona rossa; la proposta, in effetti, era stata avanzata prima il 3 poi il 5 di Marzo dallo stesso Comitato Tecnico Scientifico, ma non aveva ottenuto il via libera del governo.

Oggi, nel pieno della seconda ondata e del dibattito sul vaccino che sembra ormai in arrivo, tanti sono ancora i punti da chiarire su quanto è accaduto in quei tragici giorni di fine Febbraio a Bergamo e, come prevedibile, è già partito lo scaricabarile tra i soggetti coinvolti. Da un lato abbiamo l’OMS, che insiste con l’affermare che la decisione di limitare i tamponi quando la pandemia non era ancora esplosa fosse legata innanzitutto alla volontà di non sprecare risorse, sottolineando anche la libertà di scelta lasciata ai medici nei casi in cui avessero ritenuto necessario ricorrere al tampone. Dall’altro c’è il governo, accusato di aver esitato troppo a lungo, probabilmente influenzato dalle pressioni ricevute dalla Confindustria di Bergamo (pressioni peraltro sempre smentite da entrambe le parti), preoccupata dell’impatto che una chiusura generalizzata avrebbe avuto sugli imprenditori locali.

L’inchiesta su quanto accaduto in quei giorni terribili a Bergamo è in corso, l’obiettivo è quello di far luce su tre questioni fondamentali: perché non sia stata attivata la zona rossa, perché si sia deciso di riaprire il pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli e cosa sia realmente accaduto all’interno delle rsa. Tante sono le domande a cui si deve dare una risposta, innanzitutto per le migliaia di persone che in quelle zone hanno visto i propri cari portati via dal Covid e ora si chiedono se, almeno in parte, tutto questo potesse essere evitato.

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